Il Messale Romano di san Paolo VI

Testimonianza di una fede immutabile e di una tradizione ininterrotta

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12 dicembre 2020

Ricorre quest’anno il cinquantesimo anniversario dell’adozione da parte della Chiesa del Missale Romanum riformato a norma dei decreti del concilio Vaticano II e promulgato dal Papa san Paolo VI. Ciò ha costituito uno dei primi e più importanti passi nel rinnovamento della Chiesa dopo il concilio. Infatti, agli esordi della riforma liturgica, nell’udienza generale del 13 gennaio 1965 san Paolo VI così si esprimeva: «È bene che si avverta come sia proprio l’autorità della Chiesa a volere, a promuovere, ad accendere questa nuova maniera di pregare, dando così maggiore incremento alla sua missione spirituale [...]; e noi non dobbiamo esitare a farci dapprima discepoli e poi sostenitori della scuola di preghiera, che sta per cominciare».

Il cammino che ne è seguito è stato caratterizzato dalla presa di coscienza da parte dei Papi che si sono succeduti della necessità di un rinnovamento della liturgia. Lo ricordava Papa Francesco, ai partecipanti alla 68ª Settimana liturgica nazionale in Italia (24 agosto 2017), sottolineando che «quando si avverte un bisogno, anche se non è immediata la soluzione, c’è la necessità di mettersi in moto».

Sono trascorsi più di duemila anni dalla prima Eucaristia nel Cenacolo e l’importanza di quanto lì accadde fu subito compresa dagli apostoli, i quali, in fedeltà a Colui che aveva detto loro: «Fate questo in memoria di me», consegnarono questo grande dono alle comunità cristiane. Tuttavia, le vicende legate al rito romano nei primi secoli sono irte di difficoltà. Il Liber Pontificalis, ad esempio, pur fornendo alcune indicazioni, è, secondo le parole del suo editore, padre Louis Duchesne, tanto importante quanto oscuro circa gli usi romani in quei secoli. Del resto, in tempi di polemiche esagerate e spesso male informate sulla «ermeneutica della riforma nella continuità», come coniato da Benedetto xvi nel discorso alla Curia romana per gli auguri del Natale 2005, dobbiamo prestare attenzione a ciò che è noto e, soprattutto, a quanto è trasmesso alla Chiesa dal magistero conciliare e papale in fedeltà al Signore e all’ispirazione dello Spirito Santo.

Nella costituzione apostolica Missale Romanum, san Paolo VI ha ricordato il riordino del Messale compiuto da san Pio V dopo il concilio di Trento. Ciò ha dato inizio ad un continuato interesse per la liturgia che trovò il punto di arrivo esattamente quattrocento anni dopo la sessione conclusiva di Trento (1563), con la promulgazione, il 4 dicembre 1963, della costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium (sc).

Il Missale Romanum di san Pio V vide la luce nel 1570 e fu poi revisionato da altri cinque Papi, ultimo san Giovanni XXIII con l’edizione del 1962. Quanto cominciato nel 1570 è giunto a maturazione col Missale del 1970, grazie anche alla riscoperta di antiche fonti liturgiche non disponibili nel sec. XVI. È chiaro che tale processo era iniziato, in certo senso, già prima di Trento ed è continuato con il Messale postridentino e le sue revisioni. Se il concilio di Trento lasciò al Papa il compito di rivedere il Messale, i padri del Vaticano II disposero in modo specifico i criteri generali di revisione della messa, come si legge in sc n. 47-58.

Non dobbiamo dimenticare, tra altri aspetti, che sc chiedeva una maggiore apertura delle Sacre Scritture (n. 51). Fu così che, nel giorno di san Girolamo del 1970, furono pubblicati i volumi del rivisto Lectionarium del Missale Romanum.

Il desiderio dei padri conciliari, come di san Paolo VI, era che la liturgia, senza nulla perdere della propria ricchezza, fosse resa più accessibile al popolo di Dio. In effetti l’odierno Messale ha conservato la stessa struttura del precedente, come la maggioranza dei suoi testi, mentre ha omesso le ripetizioni, semplificato il linguaggio e i gesti, integrato nuove composizioni; per certi versi vi figura un vocabolario più esplicito circa la dimensione sacrificale della messa. Le opinioni contrarie non sono fondate. Lo richiamava san Paolo VI ai membri del Consilium il 29 ottobre 1964: «La liturgia è come un albero forte la cui bellezza deriva dal continuo rinnovamento delle foglie, ma la cui forza viene dal vecchio tronco, con solide radici nel terreno».

È la storia stessa a dimostrare «l’ermeneutica della riforma nella continuità». Si tenga presente che il Vaticano II ha stabilito solennemente e per la prima volta un corpus dottrinale sull’identità e la missione della Chiesa, in cui viene rivista la precedente nozione di «societas perfecta» a vantaggio della sua comprensione come «sacramentum», e alla luce della categoria biblica di «populus Dei», pellegrinante nella storia, costantemente aperto al rinnovamento e alla conversione. Non è irrilevante considerare quale ecclesiologia manifesti la prassi celebrativa post-tridentina e quella del post Vaticano II. Lo si coglie in particolare dall’Ordo Missae riformato da san Paolo VI che riflette una visione della Chiesa in preghiera così bene espressa in sc n. 48: «Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti». In questa linea, sc n. 54 chiede anche un uso conveniente e più ampio della lingua volgare.

La liturgia è anzitutto l’azione di Dio stesso — compiuta dal Padre per il suo Figlio nello Spirito Santo — e alla quale il popolo di Dio risponde, quaggiù come anche nel cielo. È opera del Christus totus, Capo e membra. Ciò è distante da una visione clericale della liturgia, in cui solo il clero è parte attiva mentre gli altri fedeli restano passivi. Nella liturgia è il corpo ecclesiale nel suo insieme che, sotto la guida del sacerdote, viene convocato, santificato, rinnovato e convertito. Per questo motivo si deve dare la preferenza alla celebrazione comunitaria rispetto a quella privata, poiché manifesta più efficacemente la natura ecclesiale di ogni celebrazione liturgica. L’Eucaristia è offerta a nome di tutta la Chiesa: è il principale segno di unità, il più grande vincolo di carità. Lo richiama il Catechismo della Chiesa Cattolica: «L’assemblea che celebra è la comunità dei battezzati i quali, per la rigenerazione e l’unzione dello Spirito Santo, vengono consacrati a formare una dimora spirituale e un sacerdozio santo, e poter così offrire in un sacrificio spirituale» (n. 1141).

È interessante osservare che se l’Ordo Missae del Messale di san Pio V inizia con le parole: «Sacerdos paratus cum ingreditur ad altare...», l’Ordo Missae del Missale di san Paolo VI comincia dicendo: «Populo congregato, sacerdos cum ministris...». Del resto, nel rito della messa del Messale tridentino non figurava un rituale per la distribuzione della Comunione ai fedeli, ma veniva adottato il rito per la Comunione al di fuori della messa indicato nel Rituale Romanum.

Il Messale è stato rivisto e arricchito da san Paolo VI. Si pensi al corpus di letture bibliche e di brani evangelici per la liturgia della Parola, alla riespressione e accrescimento dell’eucologia, in particolare dei prefazi, del santorale, delle messe rituali e per varie necessità, i cui testi tengono conto delle esigenze pastorali e spirituali di comunità concrete. Tra i numerosi recuperi, indicati da sc 52-58 vi sono l’omelia, l’orazione universale, la Comunione sotto le due specie, la possibilità della concelebrazione.

Tra i criteri che hanno ispirato il rinnovamento del Messale vi è anzitutto la necessità di ascoltare Dio che parla al suo popolo in preghiera attraverso le sacre Scritture, indispensabile nutrimento spirituale come ha evidenziato anche la costituzione Dei Verbum. Il Canone delle Scritture è infatti nato dal loro uso liturgico.

Vi è poi stata la migliore conoscenza delle antiche fonti eucologiche — gli antichi sacramentari — sconosciute ai riformatori di Trento, e l’apprezzamento per le liturgie d’Oriente, con la varietà di preghiere eucaristiche.

Infine, occorreva recepire anche nella lex orandi i contenuti teologici posti in luce dal concilio Vaticano II circa il mistero della Chiesa pellegrina nel mondo senza essere del mondo. Come disse san Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Novo millennio ineunte, il concilio Vaticano II è una «bussola sicura» per guidare tutta la Chiesa verso il futuro.

In un tempo in cui si confrontano rigide opinioni sulla riforma liturgica, è bene ricordare il principio Ecclesia semper reformanda. E in sintonia con l’«ermeneutica della riforma nella continuità», nel citato discorso per la 68ª Settimana liturgica nazionale in Italia, lo stesso Papa Francesco rammentava che «sono due eventi direttamente legati, il concilio e la riforma, non fioriti improvvisamente ma a lungo preparati [...]. Il concilio Vaticano II fece poi maturare, come buon frutto dall’albero della Chiesa, la costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, le cui linee di riforma generale rispondevano a bisogni reali e alla concreta speranza di un rinnovamento: si desiderava una liturgia viva per una Chiesa tutta vivificata dai misteri celebrati». Il Papa invitava inoltre a non perdere di vista i criteri che furono alla base della riforma, «riscoprendo i motivi delle decisioni compiute con la riforma liturgica, superando letture infondate e superficiali, ricezioni parziali, e prassi che la sfigurano».

Cinquant’anni non sono un lungo periodo per la storia della Chiesa. La riforma è avvenuta. Rimane un dovere ecclesiale attuarla con grande cura e profondo rispetto. Il 50° anniversario del Messale Romano di san Paolo VI, che ricorre quest’anno, è un momento propizio per riscoprire tale compito a tutti i livelli del popolo di Dio.

di Arthur Roche
Arcivescovo segretario della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei Sacramenti