Il libro «Arte e preghiera» di padre Leonardo Sapienza

La Cappella privata
di Paolo VI

La Cappella esempio di arte intesa come pietà
12 dicembre 2020

C’è una testimonianza «plastica» dell’urgenza del colloquio con Dio che ardeva in Paolo VI: è la Cappella da lui voluta nel suo appartamento privato, dove poter raccogliersi, con un’intensità ancor più vibrante, per una preghiera «forte e umile». Eletto Papa, aveva trovato nell’appartamento una semplice sala “adattata” a Cappella. Non bastava. Montini desiderava un ambiente che invogliasse alla preghiera e alla contemplazione. Come spiega nei suoi dialoghi con Jean Guitton, sentiva pressante l’esigenza di un luogo «nobile e semplice» in cui vivere la sua spiritualità.

Una descrizione esaustiva e illuminante di questo “luogo” viene fornita da padre Leonardo Sapienza, Reggente della Prefettura della Casa Pontificia, nel libro Arte e preghiera. La Cappella privata di Paolo VI (Monopoli, Edizioni VivereIn, 2020, pagine 74). Sono pagine — corredate da uno splendido apparato — che investono, in feconda sintesi, i versanti artistico, storico e architettonico, sotto l’egida di una potente spiritualità.

Paolo VI aveva dato precise indicazioni all’architetto Dandolo Bellini e a diversi artisti perché esprimessero il significato religioso che voleva dare a quell’ambiente, oltre il necessario adeguamento voluto dalla riforma liturgica del concilio Vaticano II. Il risultato raggiunto ebbe la sua approvazione: le linee «austere ed essenziali» creavano una mistica atmosfera. La Cappella fu inaugurata il primo novembre 1964. Dirà Montini: «Essa è per noi una casa viva, un luogo privilegiato. È l’Aula di Cristo Maestro; è il Tempio di Cristo Sacerdote. Perché dovunque è un Tabernacolo, noi sappiamo, la sua reale e sacramentale presenza ci piega all’adorazione e ci invita alla contemplazione, ci ammette alla comunione. Egli è qui Maestro. È la sua presenza come Verità. Qui egli ha la sua Cattedra. Qui la sua voce acquista un suono autentico; qui trova eco fedele».

«Questi pensieri — scrive monsignor Sapienza — trovano degna espressione nella Cappella privata dell’appartamento pontificio».

«La Cappella del Papa — sottolinea l’autore — costituisce un tipico esempio di arte intesa come pietà, e sotto questo aspetto sia la componente religiosa, sia quella artistica risultano armonicamente fuse». Le opere d’arte che adornano la Cappella illustrano grandi misteri della fede. Sulla parete di fondo è collocato l’altare con il tabernacolo; ai lati della parete si aprono due passaggi arcuati, al di là dei quali si possono ammirare i mosaici che riproducono il Martirio di San Pietro e di San Paolo del pittore Silvio Consadori. Sulla parete di sinistra, una grande finestra con vetrata istoriata illumina tutto l’ambiente: è la vetrata del Concilio Ecumenico Vaticano II, opera di Trento Longaretti realizzata nel 1985. Tra gli altri, sono raffigurati Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II. La mensa dell’altare poggia su un supporto a forma di colonna, ornato da tre sculture di Enrico Manfrini che costituiscono il paliotto: la Pentecoste, l’Annunciazione e l’Assunzione della Vergine. Sull’altare domina, «severo e maestoso» un grande Crocifisso, dello stesso Manfrini, del quale sono anche i candelabri e la lampada arte. La copertura della Cappella si deve al pittore Luigi Filocamo. La vetrata-soffitto produce un effetto suggestivo: un cielo luminoso di colori e di figure domina Cristo Risorto contornato da angeli. Una menzione particolare — rileva padre Sapienza — meritano l’inginocchiatoio e il seggio, dello scultore Mario Rudelli, collocati al centro della Cappella. Sullo schienale del seggio è scolpito a chiare lettere il Pater Noster, contornato da alcuni pennelli con «i pavoni alla fonte» e «le arti e i mestieri», quasi a voler indicare «l’unisono tra la preghiera del Vicario di Cristo e quella dei fedeli, e l’ambito sconfinato che la preghiera del Papa abbraccia nel suo colloquio con Dio».

Il libro di padre Sapienza si carica di un valore ancora più pregnante nel momento in cui si fregia di alcuni passi dei dialoghi tra Paolo VI e Jean Guitton. Nel descrivere la Cappella, il filosofo francese scrive: «La prima cosa che mi ha colpito è il gioco delle luci. La luce vi è di casa; irradiante. Eppure non si vede nessuna sorgente di luce. Un soffitto-vetrata diffonde il cielo». Guitton poi tesse l’elogio del sentimento dell’arte di Paolo VI, ispirato alla rinuncia all’ornamento e al superfluo. «Il Papa — sottolinea — fece sparire il non-necessario, ciò che snatura la bellezza: l’eccessivo, il vistoso, il lusso, il troppo; per ottenere solo la Bellezza (alla maniera dei greci e dei fiorentini) e col solo slancio e la linea pura». Insomma l’artista deve saper riprodurre «il sospiro lineare della natura». Da tale impostazione deriva la rinuncia a tutto ciò che non è linea.

Dai dialoghi tra Paolo VI e Guitton viene quindi riproposto il dialogo sulla bellezza in cui il Papa dichiara che tra un prete e un artista corre un’affinità: di più, «una meravigliosa possibilità di intesa».

«Il nostro ministero comune — scrive Paolo VI — ci impone di rendere accessibile, comprensibile, cioè emozionale il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’inesprimibile, di Dio. Nell’arte di rappresentare questo mondo dell’invisibile in formule intelligenti gli artisti sono maestri».

Guitton rileva che «oggi la coincidenza del sacerdozio e dell’arte è estremamente più difficile» perché l’arte procede verso strade «disumane» fino a toccare «zone quasi infernali». «Non trova — osserva — né il reale né il surreale, ma soltanto il possibile: il possibile del sogno e spesso il possibile dell’incubo». A dir poco toccante la replica di Paolo VI: «Anch’io sono turbato; il mio cuore sanguina, quando vedo l’arte moderna che ci separa dall’umano, dalla vita. A volte, sembra che certi artisti dimentichino che l’arte deve esprimere le cose. Certe volte non si capisce più. E la torre di Babele». Ma al contempo va precisato che la rappresentazione delle cose non deve tradursi in una espressione artistica piatta e anodina, ma deve sempre manifestare e alimentare un afflato divino. Il problema — come evidenzia Paolo VI — è che «il trascendentale fa paura all’uomo moderno». Ma «chi non conosce questa distanza — ammonisce Montini — non conosce la vera religione. Chi non sente la superiorità di Dio e il suo mistero non può dire di possedere la vera arte».

di Gabriele Nicolò