San Damaso e la rappresentazione dei martiri romani nelle catacombe

Raffigurazioni di grazia
e devozione

Basilica dei Santi Giovanni e Paolo, «Confessione dei martiri» (fine IV - inizio V secolo)
11 dicembre 2020

Per il periodo paleocristiano, dobbiamo constatare una penuria di monumenti iconografici a tema agiografico almeno sino al pieno momento costantiniano, quando si puntualizza il fenomeno del culto per i martiri dei cimiteri romani. Se scendiamo in catacomba, per ripercorrere le sedi dei primi pellegrinaggi spontanei e per muoverci lungo gli itinerari ideati e programmati in epoca damasiana, ci accorgiamo che, rispetto al fenomeno devozionale, pur diffondendosi in maniera esponenziale, le manifestazioni iconografiche sono quasi impercettibili.

Tutta la concezione e la programmazione dei monumenti di Papa Damaso (366-384), infatti, si imposta sull’uso sistematico dell’iscrizione raffinata, per lo più di grandi dimensioni, che, sistemandosi in sedi altamente strategiche, nell’ambito delle “corsie preferenziali” create per il flusso continuo dei devoti, diviene il fulcro materiale e concettuale di tutto l’impianto, catturando immediatamente il colpo d’occhio del pellegrino.

Se, da un lato, questa scelta prevede dei fruitori ancora molto ricettivi, nei confronti del testo scritto, dall’altro possiamo dedurre che questi elogia, dall’accurata confezione grafica, assolvevano anche alle esigenze decorative, inseriti come pannelli ornati o, comunque, come elementi salienti negli apparati monumentali.

In questi progetti, dunque, ogni effettivo espediente iconografico viene disatteso e non solo per concentrare l’attenzione sulle magnifiche autentiche papali, ma anche per sintonizzarsi con il tipo di devozione che il pellegrinaggio, già in queste sue prime manifestazioni, aveva innescato: il devoto, giunto alla meta, forse stressato da quella che Peter Brown definisce “terapia della distanza”, prova un irrefrenabile desiderio di contattare fisicamente il martire. In tutta questa ansia, in parte dovuta anche all’aspetto multiplo del pellegrinaggio romano, al devoto non si dà né il tempo, né la possibilità di visualizzare la figura del martire, intanto per tenere in sospeso sino alla fine questo desiderio di contatto e, infine, per dare il senso di questa “presenza invisibile” del santo che, in sostanza, non risulta accessibile in questa terra.

Ma è proprio durante l’ultimo scorcio del iv secolo e forse proprio nell’ambito del programma cultuale e monumentale di Papa Damaso che dobbiamo collocare le prime sicure voci iconografiche che, finalmente, rompono il silenzio che sembrava assoluto, se non fosse per l’eco delle fonti letterarie.

Mi riferisco, innanzitutto, alla colonnina marmorea, rinvenuta negli scavi ottocenteschi del de Rossi nella basilica dei Santi Nereo ed Achilleo sulla via Ardeatina. La piccola colonna, come è noto, reca scolpita sul fusto, entro una tabella appena rilevata, una scena ispirata al martirio di Achilleo, come suggerisce la didascalia Acilleus incisa sulla raffigurazione e ripetuta su un architrave frammentario. I resti di un altro piccolo rocchio di colonna con esigue rimanenze di una figurazione consimile, forse speculare, sembrano dimostrare l’appartenenza dei vari elementi ad un monumentino complesso, posto a segnalazione della tomba dei due martiri, forse su commissione dello stesso Damaso, presumibilmente in connessione con lo splendido carme che rievoca in dettaglio l’epilogo della storia dei due martiri militari. La scena conservata mostra, infatti, varie relazioni con la poesia epigrafica del Pontefice: Achilleo, in tunica discinta, con le mani legate dietro al dorso, incede verso sinistra come in fuga («conversi fugiunt ducis impia castra relinquunt»), arrestato dal carnefice che in tunichetta, pileus pannonicus, e clamide, sta per impartire il colpo mortale mentre sullo sfondo si staglia il tipico segno dell’anastasis, una croce che sostiene una corona di lauro («confessi gaudent Christi portare triumphos»).

Senza entrare, in tutti i termini, nella delicata questione cronologica relativa alla basilica trinave dei Santi Nereo ed Achilleo che, come è noto, oscilla tra una datazione già damasiana ed una di vi-vii secolo, sembra opportuno ricondurre il nostro monumento al tempo di Damaso, vuoi per le peculiarità stilistiche del rilievo, vuoi per lo schema iconografico che si allaccia agevolmente alle scene di arresto e di decollatio Pauli, così come si propongono nei sarcofagi di passione, a cui la nostra scultura allude anche con il segno semplificato dell’anastasis che, come si è già ricordato, costituisce il fuoco simbolico di questa classe di sarcofagi che, durante la seconda metà del secolo iv trova le sue espressioni più definite.

Se il piccolo organismo monumentale, di cui la colonnina era parte, può essere ricondotto all’intervento di Damaso, sia per decorare un cubiculum ampliato, sia per arredare la basilica a tre navate, più difficile mi sembra far risalire a quell’epoca le didascalie incise sulla scena e sull’architrave, che mostrano inequivocabilmente una grafia ed ortografia divergenti rispetto al carme damasiano. Non è escluso che tali didascalie siano state aggiunte, durante uno degli interventi del primo medioevo, per chiarire una situazione figurativa estremamente chiara all’epoca per le interrelazioni grafiche con il martirio di Paolo.

Non è escluso poi che la colonnina e l’architrave, anche per le esigue dimensioni dei due elementi, facessero parte di un organismo meno importante di un ciborio o di una pergula e che fossero servite in un primissimo intervento di monumentalizzazione, magari anche precedentemente a quello damasiano, e questo troverebbe perfetta sintonia con una recente ipotesi ricostruttiva delle varie fasi del monumento che, vede, appunto, alla genesi dell’itinerario costruttivo e cultuale un intervento pre-damasiano estremamente semplice nell’impegno strutturale e molto limitato nelle proporzioni.

In tal senso non si opporrebbero le caratteristiche del rilievo che, come si è detto, possono essere collocate dagli anni Cinquanta sino a tutto il pontificato di Damaso. In quest’ottica possiamo pensare che l’iscrizione monumentale di Damaso e la primitiva decorazione fossero collocati in punti diversi della basilica: di qui la necessità delle successive didascalie esplicative utili a riunire quei riferimenti ai due martiri, forse non proprio contigui.

Un altro monumento, estremamente discusso nei risvolti iconologici, sembra collocarsi negli anni del pontificato di Damaso o quantomeno nell’ultimo scorcio del secolo iv. Si tratta del ciclo affrescato nel piccolo ambiente confessionale scoperto sotto la basilica dei Santi Giovanni e Paolo al Celio, riferibile ad un frangente sicuramente precedente al 410, anno della morte di Pammachio, a cui, come è noto, si attribuisce la fondazione della basilica. Gli affreschi si sviluppano, in origine, ossia prima della demolizione parziale in vista della costruzione della basilica superiore, su tre ordini, dei quali restano i due inferiori organizzati in tre riquadri ciascuno. Quello inferiore propone al centro la figura orante di un santo, vestito di tunica e lungo mantello, tra due ricche cortine raccolte, ai cui piedi si chinano in proskynesis due devoti; a sinistra, due personaggi egualmente vestiti, si passano un recipiente coniforme, forse d’uso liturgico, mentre a destra due donne si intrattengono in colloquio. Nel registro superiore, al centro, due personaggi, forse i principi degli apostoli, si dispongono, presumibilmente, nell’atteggiamento dell’acclamazione, ai lati di una fenestella confessionis; a sinistra alcuni militi sembrano condurre un gruppo di due uomini e una donna, sottraendoli ad un ameno ambiente bucolico, reso da un fiumiciattolo e da un animale che si abbevera, forse un cervide; a destra i tre personaggi in questione sono inginocchiati, con le mani legate dietro il dorso, mentre due apparitores sopraggiungono per impartire i colpi mortali.

Al di là di ogni identificazione con un preciso gruppo agiografico riconosciuto ora come quello di Crispo, Crispiniano e Benedetta, ora come quello di Cipriano, Giustina e Teocristo, per quanto ci attiene, si rilevano estremamente interessanti sia la presenza di una scena indubbiamente violenta e assai probabilmente riconducibile ad una situazione di martirio, sia la coesistenza di un ciclo agiografico e di un’immagine devozionale, che ha per protagonista uno dei martiri del gruppo e per comprimari due privilegiati devoti.

di Fabrizio Bisconti