Nel centenario della nascita della scrittrice brasiliana Clarice Lispector

Un caleidoscopio
chiamato scrittura

Clarice Lispector
10 dicembre 2020

Contengono una forza avvincente i versi di Clarice Lispector, tratti da Dammi la tua mano: «Tra due granelli di sabbia, per quanto uniti siano / c’è un intervallo di spazio / c’è un sentire all’interno del sentire / c’è la linea di mistero e di fuoco / che è il respiro del mondo / e il continuo respiro del mondo / è quello che sentiamo / e che chiamiamo silenzio». Lirica semplice e pura, che suona come un invito alla scoperta della magnetica narratrice, per la quale questo silenzio è stato una fucina dove forgiare la propria opera, che scaturiva non tanto dall’ispirazione, vista con sospetto, e nemmeno da una particolare virtù intellettuale, ma dal sudore della fronte, come pane guadagnato attraverso la lettura attenta degli eventi più semplici, ma anche dei non eventi, della vita quotidiana.

Lungo una fiorente via artistica la scrittrice non si è limitata a raccontare storie, ma preferiva delineare ciò che il suo cuore sentiva, rielaborando poi il vissuto con una scrittura ricca di metafore, senza cedere alla moda imperante nei salotti letterari, ma attenta a lasciare che il lettore, spiazzato, trovasse un suo spazio di costruzione mediante la libera interpretazione degli scritti, spesso sprovvisti di trama.

Accostata a grandi nomi della letteratura, come James Joyce e Virginia Woolf, Clarice Lispector è considerata una delle più importanti scrittrici brasiliane del xx secolo. Nata il 10 dicembre 1920 nell’Ucraina occidentale, diceva ironicamente di non aver mai messo piede su quella terra, visto che quando l’ha lasciata era talmente piccola che l’hanno portata in braccio.

Laureata in giurisprudenza, interesse presto abbandonato per dedicarsi totalmente alla letteratura, ancora giovanissima ha conosciuto la celebrità con un geniale monologo introspettivo Vicino al cuore selvaggio (Perto do coração selvagem), tutt’ora uno dei suoi romanzi più conosciuti, accolto con entusiasmo dai critici per la sopraffina tecnica di scrittura, inedita nel panorama letterario del Paese, che prediligeva una narrativa più improntata al realismo sociale. Il suo stile frammentario e intimistico ha portato la drammaturga francese Hélène Cixous a dire che la letteratura brasiliana può essere divisa in due periodi diversi, prima e dopo Clarice Lispector.

E questo lo si vede già dal primo romanzo, in cui l’autrice proietta sulla vita della protagonista la propria evanescenza, straripante di immagini oniriche, così come in altre sue opere, da Legami di famiglia (Laços de família), al capolavoro Acqua viva (Água viva), a L’ora della stella (A hora da estrela), fino ad arrivare a Un soffio di vita (Um sopro de vida), considerato il “testamento spirituale”, pubblicato l’anno dopo la sua morte, avvenuta a Rio de Janeiro nel 1977.

All’indomani dell’inaspettato successo, la saggista solcherà l’Atlantico al seguito del marito diplomatico, in missione in Europa e negli Stati Uniti, facendo la conoscenza di molti personaggi di spicco nel mondo artistico e culturale dei Paesi in cui ha vissuto. Donna raffinata, di bellezza non comune, ammaliava quanti la incontravano. In Italia ha stretto amicizia con il poeta Giuseppe Ungaretti, da poco rientrato dopo anni vissuti in Brasile, da lui ritenuto la «patria umana», mentre il pittore Giorgio De Chirico non si è sottratto al piacere di dipingere un ritratto dell’affascinante narratrice. Sarà un tempo prezioso anche per la maturazione umana della giovane Lispector, che si chiedeva come fosse possibile scrivere e al tempo stesso vivere la frivola vita mondana. Presto però intuisce che per fare letteratura non bisogna isolarsi, ma il tran tran quotidiano può diventare un motore per la scrittura. Dalla convivenza tra l’ideale e il feriale è nata una narrativa genuina, sofferta e fragile, spesso semplicemente essenziale, si direbbe “amatoriale”, in cui i sogni si mescolano testardamente con la vita reale e le vicissitudini umane si diluiscono come nel silenzioso ruotare di un caleidoscopio, creando i colori con la danza della luce.

Nel 1969, intervistando Pablo Neruda, che due anni dopo riceverà il premio Nobel, la Lispector gli rivolge una domanda che sembra diretta più a se stessa: «Che stato precede la tua creazione, l’angoscia o la grazia?». Un interrogativo che, perseguitandola, la sprona a scandagliare sempre più in profondità l’animo umano.

I suoi personaggi, spesso come degli alter ego, sono avvolti da sfumature eteree e vivono in luoghi immaginari, in cui la psicologia e la metafisica si contendono un ruolo da protagonista. Consapevole della complessità dei sentimenti umani e dell’energia necessaria per sfidarli, le risultava difficile capire come la descrizione del mondo interiore le fosse anche solo probabile. Così, per lei la scrittura è rimasta un vero mistero, un enigma che comunque l’accompagnerà per tutta la vita, segnata anche da ferite esistenziali, ma mai chiusa alla sorpresa dell’epifania, accolta ogni volta con passione. Si sa, tuttavia, che la rivelazione è solo possibile a quanti rimangono aperti all’alterità, si direbbe all’estraneità, per lei vero pungolo di creatività. Soltanto se moriamo, lo ripeteva tra una fatica letteraria e l’altra, possiamo rinascere di nuovo. Parole che anche oggi suonano come forte richiamo a chi, stanco della superficialità e della mediocrità dell’indifferenza, cerca un barlume di bellezza, in se stesso, nel mondo, nell’altro.

di Sergio Suchodolak