«Nella terra dei lupi» di Joe Wilkins

Riconciliarsi con la memoria

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09 dicembre 2020

«Lì nel profondo delle Bull Montains, il loro cuore andò alla deriva e si mise a vagabondare, e Weldell non capiva più come fossero finiti lì, loro due… anzi, loro tre. Tutt’e tre senza un padre. Tutt’e tre abitanti di un mondo spezzato. Tutt’e tre che sentivano un vuoto fin nel midollo delle ossa». È un romanzo di donne in lutto per i propri uomini, di madri in cerca dei loro figli, di giovani generazioni alle prese con famiglie a brandelli. Ma soprattutto Nella terra dei lupi (Milano, Neri Pozza 2020, pagine 304, pagine 18, traduzione di Norman Gobetti) di Joe Wilkins, romanzo di figli senza padri, è una bellissima e straziante riflessione sulla trasmissibilità della colpa.

Al centro della scena, là a Delphia in Montana, c’è il ventiquattrenne Wendell Newman. Orfano, abita nel trailer che era di sua madre e raccoglie grano per qualcun altro. Lui, che non hai avuto mai il coraggio di raccontare a nessuno quanto a scuola amasse leggere i libri assegnati dall’anziana e severa insegnante di inglese, ha ora solo un pick-up, pesanti imposte sul groppone e una vita non facile. A complicarla ulteriormente arriva un’assistente sociale: porta con sé un bambino — magrissimo, in mano un sacchetto di plastica e un quaderno — figlio di Lacy, la cugina di Wendell finita in prigione per spaccio. Rowdy, questo il suo nome, ha un ritardo nello sviluppo e non parla. Sarà la nascita di un rapporto bellissimo.

La forza del romanzo, però, non sta tanto qui, quanto piuttosto in tutto ciò che ruota attorno a loro. E che vorrebbe schiacciarli definitivamente. Se non si sa nulla del padre di Rowdy, lo stesso di fatto vale per il padre di Wendell, dileguatosi tra le montagne da più di dieci anni. La sua fuga disperata a seguito dell’omicidio di un uomo con cui era in buoni rapporti, torna sulla bocca di molti mentre la cittadina è in fibrillazione per l’imminente caccia al lupo, la prima regolamentata nella storia del Montana dopo trent’anni. Quel che circondava Wendell prima, e che circonda Wendell e Rowdy ora («quell’espressione [gli] veniva in mente sempre più spesso: lui è il mio bambino») è una comunità retta da regole durissime, applicate e disapplicate con violenza implacabile e pervasiva. Una comunità aspra, solitaria, immersa in un circolo vizioso fatto di degrado ambientale, povertà, fondamentalismo religioso e posizioni politiche reazionarie, grettezza, ignoranza innanzitutto umana, mancanze, dipendenze e famiglie distrutte. Una comunità che è quasi tutt’uno con l’aspro paesaggio del Montana orientale, capace di nascondere e di ferire.

Eppure la natura è anche capace, a tratti, di accompagnare e difendere, e anche nella comunità sono possibili germi di speranza — addirittura per chi in apparenza non ce la fa. L’importante è riuscire a trovare il bandolo della propria storia, riconciliare la propria memoria («Quello di cui parlava Betts era […] era l'assassino […], quello che ogni tanto faceva capolino dagli angoli oscuri della memoria di Wendell era l'uomo che raccontava barzellette»). L’importante è fissare i paletti, anche dentro se stessi, tra ciò che si è e ciò che gli altri si aspettano o vorrebbero che tu fossi. «Continuò a farfugliare per un po’, mentre ondate di vergogna gli spazzavano le budella. Ma poi a echeggiare dentro di lui fu soprattutto la rabbia. Non era stato lui, era stato suo padre. Lui era diverso».

Lui ora sogna una vita «di onestà e perdono, di riposo e contatto”» E, forse, l’avrebbe trovata.

di Giulia Galeotti