INTERMEZZI BEETHOVENIANI
L’epistolario di un genio

Scatti d’ira e immediati pentimenti

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05 dicembre 2020

L’epistolario di Beethoven è una raccolta immensa, eterogenea, difforme nei contenuti e nello stile ma straordinariamente rappresentativa di un uomo le cui contraddizioni, la cui volubilità e umoralità sono uno dei fondamenti della sua eccezionale resa artistica. C’è realmente di tutto: infatuazioni, amori, liti, goliardie, richieste di aiuto per le sofferenze fisiche dovute alla sordità, estenuanti trattative con gli editori delle sue opere, confessioni a cuore aperto, accensioni di sdegno e successive sperticate richieste di perdono. Sicuramente la più celebre lettera assieme al famoso testamento di Heiligenstadt in cui confida ai fratelli la menomazione dell’udito che gli impedisce una normale relazione col prossimo, è quella rivolta alla misteriosa amata immortale sull’identità della quale gli esegeti non hanno ancora trovato elementi certi. Memorabile è comunque l’incipit «Mio angelo, mio tutto, mio io».

L’espressione sentimentale così calda, immediata, al limite dell’artificio retorico, ma sempre genuinamente accorata si ritrova anche nelle missive con le quali Beethoven chiede a un amico il perdono dopo una lite che in una lettera precedente riteneva avesse per sempre minato il loro rapporto. Così scrive a Stephan von Breuning nel 1804, inviandogli a mo’ di risarcimento morale un suo ritratto «dietro questo dipinto, mio caro, buono Stephan resti per sempre nascosto ciò che è accaduto tra noi. Ho ferito il tuo cuore lo so, ma non ho sofferto meno, Non è stato malanimo, è stata debolezza in te e in me».

In altre occasioni, anche solenni, non manca invece l’autoironia come in questo passaggio di un certo virtuosismo stilistico all’interno di una lettera indirizzata al conte Ignaz von Gleichenstein su questioni economiche al momento assai importanti «per cui carissimo, ora dovresti aiutarmi a cercare moglie. Se ne trovi una bella lì a Friburgo, disposta magari a intenerirsi delle mie armonie non esitare ad agganciarla. Ma deve essere bella, non posso amare niente che non sia bello altrimenti dovrei amare me stesso».

Ironia che a volte tocca anche il suo fisico, come in questa lettera di invito a pranzo allo Schwan, il locale di Vienna dove Beethoven consumava più volentieri il pasto di mezzogiorno: «Andrò oggi allo Schwan e spero di trovarvi lì immancabilmente (corsivo nel testo). Ma non venite troppo tardi. I miei piedi stanno bene e l’autore dei piedi assicura all’autore della testa un piede sano entro al massimo otto giorni». O ancora la propria difficoltà a interagire in società. Così, metaforicamente si rivolge a Bettina Brentano: «Avrete certamente notato che in società sono come un pesce fuor d’acqua che si rotola e si rotola finché una benevola Galatea non lo immerge di nuovo nel mare impetuoso». E infine una lettera indirizzata a Carl Czerny, allievo e futuro grande pianista che sarà autore di studi tuttora indispensabili per chiunque studi pianoforte. Qui Beethoven dopo l’ennesimo scatto d’ira, chiede perdono all’allievo che si era permesso di apportare «per giovanile leggerezza» alcune modifiche pianistiche a un quintetto eseguito di fronte al compositore. Ecco come Beethoven si scusa mantenendo però inalterata la sacralità del proprio rapporto intangibile con la musica da lui creata: «Domani mi recherò da voi per parlare. Ho avuto uno scatto e subito dopo ne fui molto dispiaciuto. Ma dovete perdonare un autore che avrebbe preferito udire la sua opera come l’ha scritta, per quanto voi l’abbiate suonata così brillantemente. Siate persuaso che ho al più grande simpatia per voi come artista e che cercherò di mostravela sempre. Il vostro sincero amico Ludwig van Beethoven».

di Saverio Simonelli