La Roma di Mario Castelnuovo

Una città surreale e dolcissima

La copertina dell’album «Sette fili di canapa»
03 dicembre 2020

«La solita intervista? Con questo sole e questa luce è uno spreco; piuttosto andiamo a farci un giro per Trastevere, annamo a cerca’ Maria pe’ Roma, come dicevano i nostri nonni». Non succede spesso che un intervistato inviti l’intervistatore a sposare l’attenzione verso qualcos’altro, girando l’obiettivo da sé al mondo circostante, mettendo provvisoriamente tra parentesi la propria storia. O meglio, cercando di dare alla propria storia un contesto più ampio, un respiro più vasto della pura biografia e della semplice promozione del proprio lavoro. Per Mario Castelnuovo — cantautore atipico, poeta vero proprio perché non osa attribuirsi questo ruolo, felice di vivere in un mondo di luce intermittente, fatto di qualche riflettore e tante serate a suonare per pochi, senza l’assillo dei piani marketing — è normale, ha sempre fatto così.

Ma questo lo sanno gli amici, lo sa chi lo conosce da trent’anni — come Giampaolo Mattei, il collega che mi ha accompagnato alla scoperta di questo scrigno di memoria e di bellezza condivisa — lo sa bene chi fa parte della carboneria semiclandestina ma attivissima dei fan che lo seguono da sempre e promuovono la sua opera quasi suo malgrado. «Con Roma intorno come si fa a parlare di una persona sola?» dice (senza dirlo) Castelnuovo con la sua falcata ampia e regolare, con lo sguardo innamorato che accarezza le case nel cuore di Trastevere, facendo saltare fuori dai vicoli aneddoti, curiosità, episodi mai annotati da nessun cronista ma tramandati oralmente dalla gente comune, quelle piccole grandi storie che popolano le sue canzoni. Come la celeberrima Nina (grande successo al Festival di Sanremo del 1984) in cui racconta un amore nato sotto le bombe della seconda guerra mondiale, quello dei suoi genitori. «Notte scura, notte chiara, notte finirai.../notte di bombardamenti notte che non sai»; tornano alla mente le parole di questa ballata struggente, antica, essenziale. Scrivere (e cantare) una canzone così senza affondare nella melassa o nel sentimentalismo generico di tanta musica leggera non è facile; è difficile quasi come annà a cerca’ Maria pe’ Roma, modo di dire che esprime l’enorme difficoltà di trovare qualcosa. Come appunto una donna con un nome tanto comune in una città così sterminata. Maria, tra l’altro — nel senso della Madre di Gesù — a Roma si trova davvero dovunque, fra tabernacoli, iscrizioni votive, edicole e santuari grandi, piccoli e piccolissimi (come la Cappella della Madonna dell’Archetto, il santuario più piccolo di Roma). L’itinerario si snoda fra le Madonnelle del Settecento e le iscrizioni sparite, semicancellate, finite in case private o coperte dalle ristrutturazioni successive, che raccontano episodi di vita quotidiana realmente accaduti, come la visita di Pio ix a un morente, mentre era nei pressi di via dei Giubbonari, interrompendo una cerimonia ufficiale per portare il conforto dei sacramenti a uno sconosciuto, memore della sua vocazione sacerdotale, prima ancora che papale. O la storia del carabiniere che sparì senza lasciare traccia, onnipresente sui vecchi rotocalchi tra i casi mai risolti, fino a trasformarsi in leggenda. Anche il fiume racconta la sua storia; è il caso della Confraternita dei sacconi rossi, all’Isola Tiberina, che ripescava i cadaveri degli annegati per assicurare degna sepoltura e messe di suffragio.

Un luogo di morte e di nascita, celebrato da Castelnuovo con il delicato cameo di GuardalalunaNina (canzone eponima di un album uscito anche sotto la forma di cofanetto, con pagine di diario, acquarelli e racconti) senza dimenticare il posto dove è morto Mameli, o la strada dove vendeva i fiori una giovanissima Lina Cavalieri, dalla voce e dalla bellezza abbagliante, rockstar ante litteram ai primi del Novecento e tuttora musa ispiratrice di design (basti pensare all’opera di Piero Fornasetti; il volto da statua greca onnipresente su arredi, mobili, stampe, è il suo). Storie raccontate anche dai semplici nomi delle strade, come l’eco che ancora si ascolta in Via del polverone, chiamata così quando si alzava il vento e c’era ancora la sabbia sul fiume, poi cancellata dai lavori di sbancamento per costruire argini e contrafforti nell’Ottocento. A Roma non c’è mai bisogno di consolasse coll’ajetto, di compensare la delusione con surrogati di poco conto, è impossibile morisse de pizzichi (tradotto: annoiarsi mortalmente); basta poco (o forse no?) per comporre Musica per un incendio («il fuoco in chimica è soltanto un’ossidazione rapida — spiega Castelnuovo — da sempre, invece io scrivo canzoni per esprimere passioni che siano incendi senza fine») e la splendida Trasteverina, resa visceralmente gioiosa dalla voce di Bianca Giovannini, meglio nota come la Jorona, regina dell’underground romano (tanta Gabriella Ferri, un pizzico di Joan Baez e moltissimo amore per la cultura folk): «Occhi d’altalena, vicoli e fontane/Sembra di volare, lassù in cima».

di Silvia Guidi