«Fratelli tutti» nella gratitudine della grazia guaritrice di Dio

L’altro buon samaritano

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02 dicembre 2020

L’enciclica Fratelli tutti, nel secondo capitolo, esamina approfonditamente la parabola del buon samaritano (Luca, 10, 25-37) con il titolo «Un estraneo sulla strada». Lo stesso Vangelo di Luca è l’unico a narrare un miracolo, che assomiglia a una parabola, di dieci strani lebbrosi che Gesù incontra e guarisce lungo il cammino. In quel testo, la reazione del samaritano svolge nuovamente un ruolo pedagogico centrale nell’insegnamento del Maestro di Galilea (cfr. Luca, 17, 11-19). Se nel primo racconto il fulcro è la misericordia che si fa prossimo con amore fraterno disinteressato, nel secondo sembra essere la gratitudine di chi si considera parte della fraternità senza privilegi dinanzi alla grazia divina.

La gratitudine dinanzi alla grazia di un Dio inclusivo appare ripetutamente nei documenti di Papa Francesco. All’opposto, deduciamo che la mancanza del riconoscimento di questa grazia può percorrere i cammini del peccato dell’ingratitudine, ossia essere una vera disgrazia fraterna e spirituale. La dichiarazione di Abu Dhabi, citata più volte nell’enciclica Fratelli tutti, dichiara alla fine della sua prefazione di essere stata pensata «nella comprensione della grande grazia divina che rende tutti gli esseri umani fratelli». (Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019). L’enciclica Laudato si’ si conclude con una preghiera ecumenica profonda che ci esorta a non addormentarci nell’incubo dell’ingratitudine: «Risveglia la nostra lode e la nostra gratitudine per ogni essere che hai creato. Donaci la grazia di sentirci intimamente uniti con tutto ciò che esiste» (n. 246).

Nel racconto biblico dei «dieci lebbrosi sanati» Gesù incontra un gruppo di persone affette da quella terribile malattia. Malattia tanto contagiosa quanto diffusa a quei tempi, e che provoca anche esclusione sociale, discriminazione religiosa, repulsione fisica, e obbliga i malati a vivere fuori dai confini della città. In quella specie di ospedale a cielo aperto delle periferie quei lebbrosi vivono la loro malattia in totale abbandono, senza privilegi, senza alcun status o appartenenza. Costretti dalle norme levitiche ad abbandonare la vita sociale e religiosa, incredibilmente quella vecchia pandemia li ha resi uguali e fratelli nella tragedia. Seguendo la lettura illuminante di Fratelli tutti, troviamo un parallelismo con la situazione attuale: «Una tragedia globale come la pandemia del covid-19 ha effettivamente suscitato per un certo tempo la consapevolezza di essere una comunità mondiale che naviga sulla stessa barca, dove il male di uno va a danno di tutti […] Per questo ho detto che “la tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. […] Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri ‘ego’ sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli”» (n. 32). Quei dieci lebbrosi, a partire da quell’umanità vulnerabile che li unisce senza più divisioni teologico-sociali e senza disparità tra ebrei e samaritani, trovano in Gesù una stessa fonte di misericordia, gratitudine e compassione. Quella decina di persone rese fraternamente uguali dalla malattia si uniscono in un solo grido: «Gesù, Maestro, abbi pietà di noi» (Luca, 17, 13). La riposta del Signore non si lascia attendere e neppure gli effetti: «“Andate a presentarvi ai sacerdoti”. E mentre essi andavano, furono sanati». (Luca, 17, 14). Ma il racconto prende poi una piega inaspettata. Dopo la certificazione rituale da parte dei sacerdoti della loro guarigione, la reazione degli ex lebbrosi è drammaticamente opposta. Nove di loro decidono di tornare al loro status religioso e sociale, ossia alla loro precedente “normalità”. Solo uno ritorna sui suoi passi per andare da Gesù e ringraziarlo. La risposta di Cristo è determinante: «“Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato chi tornasse a render gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?”. E gli disse: “Alzati e và; la tua fede ti ha salvato!”» (Luca, 17, 17-19).

Qual è il criterio equivalente in termini percentuali che utilizza Gesù per andare a cercare l’un per cento di pecorelle smarrite (Luca, 15, 4-6) e a non uscire per cercare il 99 per cento di pecorelle ingrate? Quelle nove erano in migliori condizioni di vicinanza alla misericordia di Dio e al sentimento di una fratellanza di uguali prima di essere state sanate piuttosto che dopo esserlo state? Quando Gesù dice al samaritano che si può dichiarare guarito perché è tornato per ringraziarlo, si sta forse riferendo a una precedente guarigione fisica incompleta in contrapposizione a una nuova e reale guarigione integrale? In queste righe il mio intento è solo di presentare interrogativi su cui il lettore può riflettere. Tuttavia può risultare utile a un primo approccio pensare che una pecora ferita e una pecora ingrata non sono la stessa cosa e che il peccato dell’ingratitudine o del disprezzo della grazia guaritrice di Dio è una tragedia enorme ai suoi occhi. Forse la risposta a questi interrogativi può essere affermativa. L’apertura alla grazia senza privilegi né status religiosi e alla salute integrale dell’essere umano è molto più profonda di quella fisica, risultando tanto fraterna quanto umile e tanto ecumenica quanto umana.

In qualche modo, gli ebrei ingrati ci ricordano alcuni atteggiamenti menzionati anche da Papa Francesco: «In effetti, le nostre molteplici maschere, le nostre etichette e i nostri travestimenti cadono: è l’ora della verità» (Fratelli tutti, n. 70). L’espressione «l’ora delle verità» è così precisa perché, una volta passata l’emergenza della malattia, quelle etichette, quei travestimenti, quelle maschere possono tristemente levarsi dal piano dell’uguaglianza e tornare su un volto che non ha mai curato la sua espressione di superbia e d’ingratitudine. L’enciclica ci rinnova la prospettiva dello straniero grato: «Un samaritano, per alcuni giudei di allora, era considerato una persona spregevole, impura, e pertanto non era compreso tra i vicini ai quali si doveva dare aiuto. Il giudeo Gesù rovescia completamente questa impostazione» (n. 80). Ossia, lo straniero lebbroso era doppiamente impuro, portatore di una infermità terribile e vittima della malattia dell’insensibilità sociale altrui. Una delle caratteristiche tremende della lebbra è che si perdono la sensibilità e il tatto nelle estremità delle membra. I giudei del testo lucano avevano una duplice impurità, quella della lebbra come malattia fisica e quella dell’insensibilità come malattia dell’anima. Questa ultima infermità, dalla quale non hanno voluto essere curati, li ha resi ingrati, disumani, e potremmo dire senza cuore. Ancora una volta, un buon samaritano, tenuto per mano dal Gesù dei Vangeli, ci sfida a essere cristiani vicini all’umanità e vicini al ringraziamento al Creatore. La gratitudine per la grazia guaritrice integrale di Dio ci purifica come esseri umani, come fraternità e come umanità! Anche in questo caso, andiamo e facciamo pure noi la stessa cosa (Luca, 10, 37).

di Marcelo Figueroa