Ufficio oggetti smarriti

E se «Amici miei»
non fosse un titolo?

varobj3165857obj2035841.jpg
01 dicembre 2020

Il 29 novembre erano dieci anni senza Mario Monicelli. «Convincere» quelli come lui, questo è in fondo il mestiere di Dio; gli allievi migliori, dopotutto, non ti danno mai ragione. Di fronte al cinema di Monicelli il lavoro da fare è molto strano. Finito di ridere si pensa di non avere speranza. Il ridere stesso, di quella disperazione, è la speranza. Accettare lo sconforto e i dubbi di fronte alla miseria umana, la rabbia quasi per l’incompletezza dell’uomo di fronte a quello che, ogni giorno, potrebbe diventare. L’eterna rimostranza, attraverso alcune delle più straordinarie commedie del cinema italiano, verso la nostra stupidità, la nostra miseria, quel vivere tutto sommato piccolo, reciso da ogni speranza. Questa eterna rimostranza rende l’opera di Monicelli una formidabile segnaletica per ricostruire il cammino italiano del dopoguerra. Ci siamo liberati dal nazismo, sembra dirci Monicelli, per cosa? Per diventare dittatori noi stessi della nostra vita? Una dittatura condominiale, senza gli obbrobri delle camere a gas o dei bombardamenti, il cui laccio attorno al collo è la nostra micragnosa idea di felicità. Una felicità fatta di astuzie ma priva di tenerezza. Un vivere strattonando i giorni per cavar loro dalle tasche gli spicci, dimenticandoci della loro vera ricchezza. Abbiamo sempre pensato ad Amici miei come a un titolo. E se fosse un modo di rivolgersi a noi? Se quegli amici per la cui condizione prova talmente compassione (senza giudicarli) da venir loro in soccorso attraverso il riso, e riuscendo comunque, in tutta quella miseria a trovarci la scintilla del vivere? Seguendo le sue storie troveremo un pezzo di noi. Il pezzo mancante è ciò che lo ha reso scettico, verso la nostra possibilità di riscatto. Al punto da disperarlo. E costringerlo a ridere. La vita come uno scherzo necessario. A chi fanno gli scherzi i protagonisti di Amici miei? Alla morte. È a lei, con la sua capacità di rendere arido il nostro pomeriggio, che gli amici sbattono in faccia i loro scherzi, grotteschi, meschini. «Perché ridono?» si domanderebbe la morte se avesse voce. Qua sta la vittoria di Monicelli, aver fatto della parte oscura della nostra anima, esattamente di lei, il conto che non torna. Sperare in Dio richiede fede, sperare senza Dio ancora di più. Monicelli non è stato solo e semplicemente uno dei pilastri della cosiddetta “commedia all’italiana” ma anche fra gli artefici massimi della sua stessa demolizione. Del non crederci più. Un film come Un borghese piccolo piccolo è la più disperata delle constatazioni, nemmeno ridere di noi è servito, sembra dirsi Monicelli. Nel film si narra la storia di una famiglia italiana degli anni post boom economico, una di quelle che “ha fatto tanti sacrifici” per far studiare il figlio e trovargli un posto sicuro. Al riparo dalla vita. Giovanni Vivaldi (Alberto Sordi) è un modesto impiegato alla soglia della pensione in un ufficio pubblico della capitale. La sua vita si divide tra lavoro e famiglia. Con la moglie condivide grandi aspettative per l’unico figlio, neo-diplomato ragioniere, un ragazzo non molto brillante che asseconda volentieri gli sforzi che il padre compie per impiegarlo nello stesso ufficio. Il giovane conserva ancora una certa ingenuità e fiducia nel prossimo, ma segue la morale del padre, che è quella della piccola borghesia italiana di quel tempo: «Pensa a te (...)! Ricordati che in questo mondo basta fare sì con gli occhi e no con la testa, che c’è sempre uno pronto che ti pugnala nella schiena. D’altronde io e tua madre siamo soddisfatti: abbiamo un figlio ragioniere, che vogliamo di più? Per noi gli altri non esistono. Tu ormai sei sistemato, noi siamo vecchi: non c’abbiamo altre ambizioni». Di fronte a questa frase l’idea che realmente sgomenta non è il sacrificio della propria vita per la felicità di un figlio bensì in cosa, in quale atroce gabbia tale felicità venga identificata. Accadrà qualcosa a cambiare i piani di Giovanni, lui e suo figlio verranno fortuitamente coinvolti in una sparatoria fuori da una banca. Da quel baratro se ne spalancherà un altro che vi lasciamo scoprire. Quei trenta (disperati e increduli) secondi di un uomo qualunque, di fianco al figlio morto sull’asfalto colpito da un proiettile, sono forse una delle vette della carriera di Sordi. Sembra quasi scusarsi coi passanti del “disturbo” che lui e suo figlio stanno arrecando, minimizza per scomparire. Chi, davanti a quella scena, non si siede e smette di parlare per un po’ non solo ha certamente perduto Dio ma è anche il reale obiettivo/oggetto di quella stessa disperazione e incredulità nello sguardo di Monicelli. Almeno lui, adesso, non è più costretto a ridere. Suppongo gli basti finalmente guardare.

di Cristiano Governa