Una riflessione a partire da «Fratelli tutti»

Il nostro sorprenderci di fronte a un gesto di attenzione

Henry Travers nei panni di Clarence Oddbody, “Angelo di Seconda Classe”, con James Stewart, in una scena del film «La vita è meravigliosa» di Frank Capra (1946)
30 novembre 2020

San Paolo menzionava un frutto dello Spirito Santo con la parola greca chrestotes (Gal 5, 22), che esprime uno stato d’animo non aspro, rude, duro, ma benigno, soave, che sostiene e conforta. La persona che possiede questa qualità aiuta gli altri affinché la loro esistenza sia più sopportabile, soprattutto quando portano il peso dei loro problemi, delle urgenze e delle angosce. È un modo di trattare gli altri che si manifesta in diverse forme: come -gentilezza nel tratto, come attenzione a non ferire con le parole o i gesti, come tentativo di alleviare il peso degli altri. Comprende il «dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano», invece di «parole che umiliano, che rattristano, che irritano, che disprezzano»

Recuperare la gentilezza. Questo è il senso, la necessità che emerge dallo stralcio dell’enciclica del Papa. Su questo ci viene chiesto di riflettere.

C’è un unico motivo per il quale ricordiamo persone di cui non conosciamo il nome e che non abbiamo mai più incontrato: sono state gentili con noi. Senza motivo.

Farà sorridere ma ciò che inchioda nella nostra testa quei volti di cui altro non sappiamo è che non avevano alcuna ragione apparente per comportarsi in modo gentile, eppure essi ci hanno sorpreso.

In questo nostro sorprenderci della gratuità di un’attenzione c’è tutta la disperazione dei tempi. L’idea, tanto inconscia quanto di conseguenza radicata, che non solo gli altri non meritino attenzione ma nemmeno noi.

Serve dunque motivo per offrire un gesto di gentilezza?

Non basta il fatto che quell’uomo o quella donna siano lì, davanti a noi?

Passiamo la vita a chiedere prove di ogni cosa, esigiamo di vedere e toccare tutto ma quando abbiamo un essere umano di fronte non lo vediamo.

In questo modo chi abbiamo davanti diventa un invisibile spettatore della nostra corsa quotidiana, talvolta addirittura un intralcio al nostro furioso sfinirci di giorni che saziano senza nutrire.

Il fatto è che la gentilezza è fuorimoda.

Provate a consegnare un soggetto cinematografico nel quale il protagonista del film sia un uomo gentile. Quel film se la passerà malino.

Gli editor reclamano chiaroscuri, personaggi ambivalenti. E pensare che più chiaroscuro dell’uomo non c’è nulla, solo che è un chiaroscuro che fa luce, che indica una destinazione.

Ma questa luce indispone perché essa è la radice umana di un bene irriducibile, lo stigma di un destino che non ha la forma della morte, l’appartenenza a un padre.

Se ormai al cinema e in letteratura il “cattivo tira” e il buono no è perché ci siamo così rincretiniti da fissare il grottesco negli occhi del male e non in quelli del bene.

Ma non ogni forma di male è colpa del male stesso, c’è una forma di bene di facciata, insincero che fa ancora più danni.

Il rischio in questo caso è ancor peggiore, ovvero quello di cadere in una gentilezza artificiale e in questa deriva di sentimentalismo senza sentimento ci viene in ausilio Flannery O’Connor.

Passiamo la vita, ricordava Flannery O’Connor «... di fronte al male, a guardarlo in faccia e, il più delle volte, trovarvi quel nostro riflesso ghignante con cui non facciamo i conti; ma il bene è un’altra faccenda. Pochi l’hanno fissato abbastanza a lungo da accettare il fatto che anche il suo aspetto è grottesco, che in noi il bene è qualcosa in costruzione. Le forme del male di solito ricevono espressione adeguata. Le forme del bene devono accontentarsi di un cliché o di una lisciatina che finisce per indebolire il loro reale aspetto».

E così, la narrazione richiesta dai tempi (e da una fetta della macchina culturale) finge di nobilitare il proprio cammino attraverso una forma di tenerezza che quando anch’essa ha radice inautentica non è meno pericolosa dell’odio. «Una tenerezza — ammoniva la scrittrice americana — che da tempo, staccata dalla persona di Cristo, è avvolta nella teoria. Quando la tenerezza è separata dalla sorgente della tenerezza, la sua logica conseguenza è il terrore. Finisce nei campi di lavoro forzato e nei fumi delle camere a gas». La falsa tenerezza sta sostituendo la piccola, onesta luce della gentilezza.

La grande arte, si esprima essa attraverso le parole o le immagini, non mette in rilievo le gesta degli eroi bensì la sfida quotidiana degli invisibili e la più invisibile delle necessità che essa reclama: la gentilezza.

Ogni grande autore ha saputo raccontare il motivo per essere gentile perché nella gentilezza, nella sua forma più autentica, si nascondono i bagliori della pietà.

Che arte è quella nella quale i gentili non assurgono a eroi?

Magari attraverso la storia di un uomo al quale la gentilezza indica una strada, una possibilità, anche nei giorni più cupi.

Ne La vita è meravigliosa (1946) Frank Capra ci racconta di un uomo qualsiasi, tale George Bailey.

Un uomo che ha passato la vita ad essere umano e gentile con tutti, dalla sua famiglia ai clienti del suo piccolo istituto di credito che adesso è in seria difficoltà.

George sta pensando di farla finita.

Ma c’è un’ultima gentilezza cui aggrapparsi, quando Dio finisce gli uomini spedisce qualcos’altro.

Il suo nome è Clarence ed è un aspirante angelo cui è stata affidata la sorte di George e se questi si ammazza Clarence non avrà le sue ali.

Chi avrebbe il coraggio oggi di produrre in film del genere? Lontano dalla carità trendy, dall’insincero sentimentalismo che ci fa amare tutto purché a noi non reclami nulla in termini di fatica.

La gentilezza poi, ha un’altra dote, per usare una locuzione del mondo dell’impresa potremmo dire che “sa fare sistema” e nel caso diventa imbattibile.

C’è un piccolo film danese dal titolo Italiano per principianti (2000) di Lone Scherfig che dipinge perfettamente tale schema.

Un film corale, Altmaniano diremmo, nel quale i protagonisti sono tutte persone semplici che la vita ha travolto con qualcosa di complesso e doloroso. Ci troviamo in una cittadina della provincia danese, Andreas è il nuovo pastore arrivato per sostituire temporaneamente il titolare Wredmann, in congedo (e in crisi di fede) per la morte della moglie. Nonostante la giovane età Andreas è a sua volta vedovo. Il ristorante dell’hotel presso il quale alloggia è gestito da Jørgen Mortensen che ha appena ricevuto l’incarico dal direttore di licenziare il suo amico Halvfinn (Finn), che lavora come cameriere. Nel locale lavora anche l’italiana Giulia, che ascolta involontariamente una confidenza di Jørgen all’amico Finn: l’uomo teme di essere divenuto impotente e di conseguenza vede a rischio la sua voglia di famiglia. Lei gli suggerisce che forse non ha ancora trovato la donna giusta. Finn è innamorato della parrucchiera Karen; tuttavia ogni volta che cerca di tagliarsi i capelli Karen deve interrompere il lavoro per l’irruzione dell’anziana madre, alcolizzata e malata grave, soggetta a frequente ospedalizzazione. Abbiamo infine la giovane pasticciera Olympia che vive con il padre scontroso che la tratta come se fosse ancora bambina e non dimostra per lei il minimo affetto.

La vita dispone le proprie prove e il proprio pedaggio di dolore in questa comunità, parallelamente a tali prove qualcos’altro in essi si attiva o meglio, è lì ad attenderli.

Una specie di ragnatela di gentilezza. Sono pronti a sorreggersi, ora serve un motivo comune per farlo che coordini e alimenti la loro voglia di farcela e questo arriva sotto la stramba forma di un corso d’italiano. Uno dopo l’altro i protagonisti arriveranno in questo curioso corso per imparare l’italiano organizzato dal Comune. Quella piccola aula diverrà una specie di alveare della gentilezza e di ascolto. Una palestra di piccole attenzioni e di gesti di conforto che lasciati lì, uno sull’altro, costruiscono una torre di bene e custodia reciproca invalicabile alle mareggiate del male.

Ma c’è un momento nel quale la gentilezza svela definitivamente il suo volto, la santità della sua gratuità: ed è di fronte alla morte. La gentilezza “smascherata” diventa pietà umana allo stato puro e si manifesta sotto forma di istinto, quasi un tic, in risposta al tentativo della morte di avere l’ultima parola.

Nino Pedretti era un formidabile poeta dialettale romagnolo, quella che segue è la traduzione di una delle sue poesie più belle e si conclude con un gesto che da solo contiene e custodisce il mistero del vivere. Un gesto gentile apparentemente fuori tempo massimo.

di Cristiano Governa

I posti dove stanno


Mia mamma sta dentro nei bambini con i colletti bianchi che sbagliano le righe. Sta dentro i fiori che crescon dentro i vasi, sta dentro nei galletti che gridan come matti, sul far del giorno. Sta nelle campanelle del mattino, che battono, in fretta in fretta, come se avevan freddo. Mia mamma sta dentro di me, fissa, con la sua voce, quando diceva «Grazie, Signore», andando a letto. E mio babbo sta in una donnina magra – mi trema ancora le ginocchia, quando la vedo – che l’ha pettinato con le mani, quando è morto
.

(Nino Pedretti, El vuosi, cit., p. 24)