Giulio Guidorizzi racconta Enea

Un “cor inquietum” alle origini di Roma

varobj3124319obj2035841.jpg
28 novembre 2020

«Sa tutto, ma non ciò che si agita nel cuore di un essere umano. E nemmeno io lo conosco, nessun uomo lo conosce davvero». Guardando la vecchia Sibilla cumana, questo pensiero affiora nella mente di Enea durante una delle drammatiche tappe delle sue peregrinazioni da Troia alla costa laziale in compagnia del vecchio padre Anchise, del figlio Ascanio e di un fuggiasco manipolo di concittadini. Un viaggio leggendario che Giulio Guidorizzi ripercorre nel suo ultimo libro, Enea, lo straniero. Le origini di Roma (Einaudi, 180 pp., 14 euro). Dopo aver rincontrato nell’Ade per l’ultima volta l’amata Didone, che aveva precedentemente abbandonato alla disperazione suicida perché irretito dal richiamo di «qualcosa di inesorabile che lo guidava», Enea sente ancora una volta nel cuore la stilettata di una già conosciuta verità: «Noi esseri umani non siamo diretti dal caso, ma neppure dalla nostra volontà. Fatum, da fari, “dire”: ciò che è stato detto, una volta e per sempre». Con il racconto della vicenda del principe dei Dardani, la cui figura è tratteggiata da Omero nell’Iliade e poi resa immortale da Virgilio nel celebre poema celebrativo del mos maiorum e delle radici divine del principato augusteo, il grecista Guidorizzi completa un trittico narrativo incominciato nel 2016 con la storia di Agamennone, e portato avanti nel 2018 con le peripezie di Ulisse. Titolo e sottotitolo del libro adombrano il senso di un inizio che viene da lontano: da una città distante più di millecinquecento chilometri da Roma e distrutta dalle fiamme di una guerra consumatasi almeno quattro secoli prima della fondazione dell’Urbe. Nel cuore di tale lontananza spaziale e temporale sta un uomo in fuga con un pugno di compagni disperati, al seguito dei quali ci avviamo anche noi, lettori di queste avvincenti pagine in prosa che si servono con libertà del racconto in poesia di Virgilio. Guardiamo con loro l’estrema notte di Troia, quando «videro sparire il luogo in cui erano nati…, sinché anche l’ultima striscia di terra fu inghiottita dalla bruma»; assistiamo in silenzio alla morte di Anchise, che per sé non vuole né pianti né parole, perché «bastano le lacrime delle cose»; ascoltiamo i pensieri di Didone al cospetto di «una luna, meravigliosa, indifferente alle sventure umane, che avrebbe continuato a splendere nello stesso modo anche quando l’ultimo uomo fosse scomparso»; e, dopo averlo seguito a Delo, a Creta, nelle isole Strofadi, a Cartagine, accompagniamo l’eroe sulla chiatta infernale di Caronte, il traghettatore di anime al quale gli dèi hanno donato la vita eterna, privandolo però della «capacità di provare pietà, perché altrimenti deporrebbe il remo e si metterebbe a piangere sull’infelicità degli uomini». E quindi giungiamo alla «foce di un grande fiume, che chiamano Tevere»: è la fine del viaggio e l’inizio di una nuova vita per questo misero resto di popolo in cerca di una patria. Nell’entroterra di quella regione d’approdo, di lì a qualche secolo sarebbe stata fondata Roma, alle cui origini c’è dunque uno straniero, un uomo malinconicamente docile a prescrizioni provenienti da voci di ombre, da forze ignote e incuranti di quanto si agita nel suo cuore, piegato a un «destino che compie il suo eterno ciclo e conduce a un luogo sconosciuto». Enea, il pio, è «reso nobile da tutte e tre le parti del mondo», spiega Dante nella Monarchia: da Asia, Europa e Africa provengono i suoi illustri antenati e le sue tre regali mogli, così che «il padre del popolo romano, e quindi il popolo romano stesso, è stato il più nobile esistente sotto il cielo». Una nobiltà di sangue ereditato, ma anche di sangue versato, da quello sparso a Troia fino a quello fraterno che bagnò le prime mura della città, come ci ricorda Agostino nel De civitate Dei: «Roma infatti ebbe origine da un fratricidio». La leggenda non poteva ovviamente immaginare quanto sarebbe poi davvero accaduto nella storia: quella grande e gloriosa città ne avrebbe ospitata un’altra, senza mura ed edifici, ma costituita da uomini spe beati, scrive ancora Agostino, «felici nella speranza» che ponevano «nell’invocare il nome del Signore Dio». Un Dio che conosceva quanto si agitava nel loro cuore, perché di ogni cuore egli è il creatore, e che si è coinvolto nel loro destino incontrandoli, facendosi loro compagno di viaggio ed effondendo il proprio sangue su una croce, dalla quale ha messo fine ai cruenti sacrifici fondativi della civiltà umana rivelandone per sempre la menzogna. In certi momenti sembra che l’Enea raccontato da Guidorizzi sia quasi in attesa di questo incontro, nel quale il cuore dell’uomo trova riposo.

di Paolo Mattei