Il ruolo di Pier Damiani nella formazione del Collegio cardinalizio

Quando le spighe sono più dure delle pietre

Andrea Barbiani «San Pier Damiani» (XVII secolo)
28 novembre 2020

Isecoli XI-XII videro cambiamenti consistenti nella civiltà occidentale: l’esplodere del fenomeno urbano produsse una trasformazione del paesaggio e della società europea, che favorì il nascere di una spiritualità nuova. In quegli stessi secoli si assistette anche al sorgere del cardinalato, alla crescita delle sue funzioni e al suo costituirsi come vero e proprio Collegio per coadiuvare il vescovo di Roma nell’esercizio del suo governo sulla Chiesa universale. Fu allora, grosso modo tra il 1046 e il 1130, che anche l’esercizio del ministero petrino mutò sensibilmente, incidendo sulla fisionomia dell’intero corpo ecclesiale.

Nelle vicende che portarono alla formazione del Collegio cardinalizio Pier Damiani svolse senz’altro un ruolo preminente; più d’ogni altro tra i grandi riformatori dell’xi secolo, egli fu sostenitore convinto dell’azione dello Spirito Santo nelle anime: considerando la santa vita degli eremiti di Fonte Avellana, ritenne infatti di non doversi stupire della loro solidità nelle virtù, perché chi dava loro forza era quello stesso «che su leggere spighe poste in cima a fragili steli tiene sospese mirabilmente le riserve di grano di tutta la terra. E mentre spesso le costruzioni di pietra crollano per il loro peso, non cadono invece, nel sostenerlo, gli involucri sottilissimi delle spighe, appese su esili fili di paglia» (Epistole 18, 1).

Fu lui a sostenere con estrema convinzione che nel tempo di sede vacante, la persistenza della Chiesa Romana era garantita dai cardinali vescovi. Nell’autunno del 1057, poco dopo esser stato elevato al cardinalato da Stefano ix, rivolgendosi agli altri cardinali vescovi disse che «la chiesa del Laterano, come ha per titolo il nome del Salvatore, che è capo di tutti gli eletti, così è madre, apice e vertice (mater et quidam apex ac vertex) di tutte le chiese del mondo. Essa ha sette cardinali vescovi, ai quali soltanto, dopo il Papa, è permesso celebrare i misteri del culto divino al suo sacrosanto altare» (Epistole 48, 4-5). Nella sua esegesi, ciò costituiva una realizzazione evidente dell’oracolo di Zaccaria (3, 9): «Ecco la pietra che io pongo davanti a Giosuè: sette occhi sono su questa pietra». «Questa pietra — continua —, a sua volta, è quella stessa di cui il vero Giosuè [Gesù] promette a Pietro: “Su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Matteo 16, 18)» (Epistole 48, 5).

Il successore di Pietro veniva dunque simbolizzato nella pietra posta davanti a Giosuè che aveva sette occhi, i quali erano appunto i sette cardinali vescovi: «Noi dunque, fratelli, noi, dico, che siamo come sette occhi sopra una sola pietra, che portiamo in noi l’immagine delle stelle, che abbiamo, in forza dell’ufficio di annunziare il Vangelo, la dignità di angeli, dobbiamo avere gli occhi luminosi e dobbiamo annunziare ai popoli non solo con la voce, ma anche con le opere le parole di vita. Dalla bocca, infatti, escono i discorsi dei predicatori, ma è la vita di chi predica a renderli autorevoli» (Epistole 48, 7).

Il cardinale vescovo di Ostia sintetizza quindi le funzioni e i compiti principali dei cardinali vescovi: essi sono gli occhi della Chiesa, cui è chiesto di vedere lontano; di annunciare la vera dottrina, mantenendola pura da ogni contaminazione di errore; di essere modello per tutti, di modo che la loro stessa vita sia monito autorevole alla corruzione dei cattivi costumi. A loro è affidato il compito di correggere i devianti: «Voi, o dilettissimi — esorta ancora —, cui dall’autorità della Sede apostolica è affidato l’incarico di togliere queste e simili depravazioni [poco prima aveva elencato una serie di abusi e devianze di vescovi e sacerdoti], offritevi agli altri e non solo ai fedeli ma anche ai sacerdoti, a regola e norma di vita. Si legga nella nostra vita ciò che si deve fare, e ciò che si deve evitare. (...) È proprio così che diventiamo con Pietro partecipi delle chiavi della Chiesa: quando cioè agli altri fedeli presentiamo noi stessi come forma sicura e modello di vita» (Epistole 48, 11).

Un ulteriore punto fermo del pensiero dell’Avellanita è che nei cardinali sussiste la Chiesa romana: essi garantiscono la sopravvivenza dell’organismo anche nel momento in cui la sede è vacante e dove essi sono, ivi è la Chiesa, come afferma con chiarezza nella lettera inviata alla fine del 1058 a Papa Niccolò ii (Gerardo, già vescovo di Firenze) e a Ildebrando di Soana, i quali erano stati costretti a lasciare Roma, allora nelle mani di Benedetto x, l’antipapa eletto da quell’aristocrazia romana, con a capo i conti di Tuscolo, che era ostile al gruppo dei riformatori: «Siete voi — esclama — la Sede apostolica, voi la Chiesa romana. (...) Pietro che fugge con voi mostra chiaramente a tutti che la Chiesa romana è là dove egli vi conduce» (Epistole 57, 3).

Tali idee ritorneranno nel decreto sull’elezione papale, che fu il frutto più eclatante del sinodo svoltosi a Roma dal 13 aprile al 1° maggio 1059: Niccolò ii era stato intronizzato il 24 gennaio di quello stesso anno. Il decreto, che avrebbe progressivamente concentrato nelle mani dei soli cardinali l’elezione del vescovo di Roma, prevedeva tre fasi: una prima consultazione dei cardinali vescovi, cui venivano poi aggregati gli altri cardinali; infine l’elezione, sancita con l’approvazione del clero e del popolo romano. Nell’eventualità che i cardinali vescovi fossero limitati nell’esercizio della loro libertà dall’aristocrazia romana, all’elezione si sarebbe potuto procedere anche fuori dall’Urbe, poiché dov’essi erano, lì era la Chiesa.

Non è improbabile — com’ebbe a spiegarmi Crispino Valenziano — che tali idee abbiano poi trovato poi una visibile concretizzazione nel colore delle vesti liturgiche che ancora oggi s’indossano nella messa esequiale per il Pontefice romano, dove il rosso più che alla presenza dello Spirito (che resta sempre e comunque il principale attore della celebrazione), rinvia proprio (così almeno una delle ipotesi più accreditate) alla circolazione del sangue, cioè al permanere della vita nell’organismo della Chiesa romana, garantita per l’appunto dal Collegio cardinalizio che presto darà alla Chiesa un nuovo Papa.

In quel decennio centrale dell’xi secolo, i cardinali videro così progressivamente arricchito il loro ruolo e le loro funzioni di principali collaboratori del Papa, a sostegno della sua azione di riforma. E tale è ancor oggi — sostanzialmente — la loro funzione: essi devono coadiuvare il vescovo di Roma, successore di Pietro, nel governo della Chiesa universale, sostenerlo nel suo sforzo perché la Sposa di Cristo, sempre più pura e senza macchia, risplenda di bellezza. Sono chiamati a farlo con la purezza della loro dottrina e — soprattutto — con una vita il più possibile santa, disposti finanche a versare il sangue per la Chiesa. Un compito capace di far tremare le vene ai polsi, se a sostenere quelli che vi sono chiamati non fosse — come scrisse appunto il priore di Fonte Avellana— Colui «che su leggere spighe poste in cima a fragili steli tiene sospese mirabilmente le riserve di grano di tutta la terra» (Epistole 18, 1).

di Felice Accrocca