Nei versi di Georg Trakl e di Roberto Carifi

La crudeltà dell’orfano

Francisco Goya, «Saturno che divora i suoi figli» (1819-1823)
28 novembre 2020

Scrivere «una ferocia orfana» sembra una contraddizione in termini, un allinearsi casuale di concetti scelti solo per stupire il lettore. Ma non si tratta di una licenza poetica; è la radiografia di una malattia che dilaga nel nostro mondo. È l’assenza (reale o percepita) del padre, una «orfanezza» — per usare un termine caro a Papa Francesco — feroce, perché la paura rende violenti, amari, risentiti, pronti alla rappresaglia senza motivo.   L’immagine è tratta da una poesia di Roberto Carifi, che ha molto amato e frequentato le opere di Georg Trakl, fino ad assimilarne lo stile e l’universo simbolico.

«A volte l’azzurro è una piaga — scrive Carifi — che rompe il quadrato / dove il mondo riposa ed ognuno / ha una gloria da condurre / nel seno della terra, una ferocia / orfana che chiama amore / e stringe chi lo separa / dalle stagioni, il buio». 

Una «ferocia / orfana che chiama amore», ma nel frattempo si perde nella palude del male, delle ferite, delle contraddizioni della vita.  Nei versi di Georg Trakl, l’ufficiale austriaco che si  uccide dopo aver visto il massacro della battaglia di Grodek, sul fronte galiziano durante la prima guerra mondiale, il tema dell’“orfanezza” torna in modo ossessivo, contrapposto allo splendore lussureggiante della natura, descritta con i suoi colori accesi e i suoi panorami incantati, indifferenti allo strazio del cuore dell’uomo, allo scempio della sua distruzione. 

«Lieve risuona il palazzo di pietra, il giardino degli orfani, l’oscuro ospedale, un rosso naviglio sul canale» scrive Trakl, e anche   «Nel fogliame rosso di chitarre pieno / sventola  la chioma gialla  delle fanciulle  / allo steccato dei  girasoli. / Tra nuvole passa un carro dorato. / Nella pace di ombre brune tacciono / i vecchi che si abbracciano. / Gli orfani cantano dolcemente il vespro. / Nei vapori gialli ronzano le mosche». 

Trakl   si lascia raggiungere dalla catastrofe della sua epoca (benché pacifista, partirà volontario per il fronte), accettando di incarnarla e assumerla su di sé in tutte le sue lacerazioni, proprio in quanto si sente sradicato da ogni contesto sociale, straniero alla propria casa, così come alla civiltà e al mondo. L’universalità della sua poesia è nell’estrema esperienza di un destino che sembra aver privato l’individuo di ogni rapporto con la totalità degli altri uomini: il mondo è costituito da frammenti che vanno alla deriva, da particolari spezzati e disgregati, che possono solo esprimere solo la nostalgia di un’unità perduta.

Trakl vive fino in fondo, nella poesia e nella vita, questa scissione dell’epoca. Nella sua vicenda privata, agitata da ombre e ossessioni, vive l’agonia di una civiltà che sgretola tutti i fondamenti della vita, sino al calvario della prima guerra mondiale in cui si consuma e distrugge. Il singolo non può prendere partito, la sua unica autenticità possibile è una posizione marginale, solitaria.

Uno dei giudizi critici più acuti e pertinenti sulla poetica di Trakl arriva da un collega illustre, Rainer Maria Rilke, che vede nello smarrimento dell’orfano la chiave di lettura per accedere al suo repertorio interiore. «Immagino che perfino chi gli sta vicino, premuto per così dire contro il vetro, avverta queste vedute e questi colpi d’occhio sempre come un escluso: il vissuto di Trakl infatti avanza come in immagini riflesse e riempie tutto il suo spazio, che è inaccessibile come lo spazio nello specchio». 

Inaccessibile come un’infanzia a cui non si riesce a ritornare, arrivando a sognare  lo stato di  Ungeborener,  di “non-nato”, e per questo innocente.  Quella stessa infanzia che diventa un luogo dello spirito, a cui bruscamente ci accorgiamo di appartenere quando il dolore viene a visitarci. 

«Anche se vecchio l’orfano / ha un pianto di bambino» scrive Carifi in una poesia dedicata alla madre morta.  Nella prefazione all’antologia  Amorosa sempre. Poesie (1980-2018) — edita da La nave di Teseo a cura di Alba Donati e   Giulio Ferroni — ci si sofferma ad analizzare proprio questo aspetto, un tema che si inscrive «sotto il segno dell’infanzia, percepita come scaturigine e motivazione originaria della parola, del suo cercarsi e pronunciarsi. Ma non si tratta della ricerca dei segni perduti del  vert paradis des amours enfantines (…). L’infanzia evocata da Carifi non è un’infanzia del “prima”, ma un’infanzia del “dopo”: un “dopo” che si sostanzia dell’esperienza individuale dell’autore, della traccia di un’infanzia personale segnata da una guerra non vista, una guerra da poco conclusa, ma che vi ha pesato come un lascito di macerie, rovine, lacerazioni, negazioni; in una dolorosa persistenza a cui, nell’ambito più privato, si è accompagnato il precoce abbandono da parte del padre e un più stretto e intenso legame con la madre. Così questa poesia tende a rapportarsi ad un inizio in cui l’avvolgente protezione dell’universo materno, del mondo delle madri, si intreccia con la paura e l’angoscia dell’abbandono, del persistere delle rovine».

«Sul tempo del gioco e dei balocchi, sull’annuncio delle infinite possibilità che pure si disegna nei sogni del bambino —  si legge nella prefazione al libro  — gravavano l’eco della guerra recente e l’ansia del distacco e dell’addio; e nel desiderio poetico dell’adulto ne restano macerie, da cui sprigionano lampi di gioia e di paura, che fanno coesistere affermazione e negazione, un muoversi verso il cielo e un ricadere nella polvere della terra, una tensione verso la bellezza e una percezione del suo frantumarsi».

Se non c’è più un padre, anche i fratelli sfumano in un orizzonte indistinto, diventano folla generica, nemici senza volto, e si moltiplicano quei  lugares de orfandad  citati tanto spesso dal papa e cantati dalla poetessa andalusa Josela Maturana. Anche per questo, per questo effetto collaterale “civile”, sperimentabile nella vita di tutti i giorni, dell’“orfanezza percepita” vale la pena rileggere i versi luminosi e funebri di Georg Trakl e l’opera del suo “figlio” italiano   Roberto Carifi, un poeta   «disordinato ed eccentrico — scrive Alba Donati — (nel suo curriculum trovano posto una tesi su Rousseau, la fondazione di vari gruppi rock, e vari viaggi a Parigi per seguire all’École Freudienne le lezioni di Lacan)   capace di stringere tutto il dolore umano, storico e metafisico, nel pugno di un bambino».

di Silvia Guidi