Le violenze sulle donne in Iraq e Siria

Una tragedia dimenticata

Un gruppo di donne yazide che erano state schiavizzate dall’Is partecipano a un incontro a Duhok nel Kurdistan iracheno. Migliaia di donne yazide sono state obbligate a convertirsi all’Islam e a sposare militanti del gruppo armato (Epa).
27 novembre 2020

Gli orrori causati dalla serie di conflitti che hanno devastato l’intera regione del Medio Oriente nel corso dell’ultimo decennio sono tristemente noti. Solo per citare due esempi fra i più infausti, la guerra in Siria è ormai riconosciuta come causa della più grande migrazione forzata di persone dopo il secondo conflitto mondiale, mentre le violenze intraprese dal sedicente stato islamico (Is) in Iraq hanno spinto l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (Unhchr) a parlare nel 2015 di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Ma, contemporaneamente a questi spargimenti di sangue, si è sempre consumata anche un’altra tragedia, spesso meno discussa seppur non meno grave: un numero impressionante di casi di violenza sulle donne nelle zone di guerra. E, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne del 25 novembre, risulta ancora più importante mettere in luce questo dramma.

Il caso più impressionante verificatosi nella regione è probabilmente quello delle violenze commesse dai militanti dell’Is ai danni della comunità yazida in Iraq a partire dal 2014. Nonostante risulti estremamente difficile ottenere stime attendibili sul numero delle vittime, esistono invece numerose testimonianze che hanno raccontato nel dettaglio l’atrocità di quegli avvenimenti. Quando l’Is attaccò la regione irachena del Sinjar, nel nord-ovest del Paese, rilasciò un comunicato che definiva esplicitamente le donne come un “bottino di guerra”. Migliaia di donne yazide vennero obbligate a convertirsi all’Islam, a sposare militanti del gruppo armato e, in numerosi casi, a essere vendute come schiave in veri e propri mercati. Lo stesso episodio rituale si ripeteva ogni volta: le vittime di sesso femminile venivano separate dagli uomini, per essere poi divise in base all’età e allo stato civile e andare incontro al loro triste destino. Le linee politiche dei miliziani limitavano inoltre l’accesso delle donne all’istruzione e alle cure mediche, mettendo ancora più a repentaglio le loro vite. In queste aree aveva anche luogo la crudele pratica chiamata “hisbah” (“controllo”), nella quale militanti donne dell’Is ispezionavano i costumi delle donne locali e infliggevano violente pene corporali a quelle che non rispettavano le regole imposte dallo stato islamico. Questa sorte non fu esclusiva delle donne yazide, ma toccò anche a quelle delle altre comunità, incluse quelle cristiane che abitavano la zona. L’Is metteva infatti in atto una strategia di violenze sistematiche ai danni di tutte queste minoranze, allo scopo di generare un clima di paranoia e diffidenza reciproca nella regione.

Il caso siriano appare altrettanto atroce: anche in questo conflitto vi sono infatti numerosi gruppi armati che operano senza insegne ufficiali e ricorrono allo stupro come a una vera e propria strategia militare, finalizzata a instillare il terrore nelle vittime. L’organizzazione nongovernativa International Rescue Committee (Irc) ha stimato che le violenze sessuali e la paura di esserne vittima sono le ragioni primarie che hanno spinto più di 600.000 donne a lasciare il Paese.

A rendere ancora più drammatico questo quadro è inoltre il fatto che per molte donne vittime di violenza la situazione non è migliorata. La fine del cosiddetto stato islamico, avvenuta con la sconfitta militare, ha lasciato dietro un gran numero di donne e bambini ora trattenuti nei campi gestiti dalle autorità curde, dove vengono trattate con estrema diffidenza e subiscono discriminazioni dovute ai loro legami con gli jihadisti. Alcune donne intervistate hanno dichiarato di avere subito violenze proprio all’interno di queste strutture. Questa spaventosa deriva si aggiunge ai più noti problemi presentati dai campi in Siria, come il sovraffollamento e le precarie condizioni igieniche. Diversi osservatori, in particolare l’Oms e l’organizzazione Human Rights Watch hanno infatti ripetutamente sottolineato la necessità per le donne detenute in queste strutture di avere accesso a un supporto psicologico e sociale a lungo termine per far fronte ai traumi subiti.

di Giovanni Benedetti