A proposito di Maradona A proposito di Maradona

Riflessioni sul genio

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Era grasso. Un calciatore grasso, un ossimoro vivente. La sua forma fisica il più delle volte non era “a posto”, una contraddizione stridente per uno sportivo, soprattutto in questi ultimi anni in cui il calcio si è trasformato sempre più in uno sport “muscolare”, quasi un videogioco, ma Diego Armando non era uno sportivo, era un genio. Un genio è sempre fuori forma, fuori posto, perché spinge più in là l’orizzonte delle possibilità, allarga il perimento della disciplina che pratica. In realtà il genio non pratica ma incarna, vive, in una parola gioca. Lo espresse bene John McEnroe quando parlando della differenza tra lui e Ivan Lendl disse: «I play tennis, he works tennis». Maradona giocava a calcio, anzi “a pallone”. Gira in rete un video in bianco e nero che lo ritrae in un malmesso campo di terra, con un pallone malconcio che palleggia, deve avere 12-13 anni, e chi lo ha pubblicato ha (genialmente) messo in sovra-impressione la frase definitiva di Borges: «Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per strada lì ricomincia la storia del calcio». È la poesia del “pallone di stracci” tanto cara a Papa Francesco.

Maradona ha fatto la storia del calcio rimanendo quel ragazzino che palleggia, per citare Stevenson sull’arte, «con la serietà con cui gioca un bambino». Niente di più serio del gioco; il gioco è il contrario dello scherzo. L’artista geniale sa giocare, perché si mette in gioco e mette tutto se stesso in quel giocare-giocarsi. Chi lo ammira, chi ammira un dribbling di Maradona o una volée di McEnroe parla infatti di semplicità, di naturalezza perché «lo scultore pensa in marmo» come sottolineava Oscar Wilde. Tutto viene naturale al genio, quasi senza fatica. E con questa scioltezza, a volte quasi irritante, il genio compie lo strano miracolo di tenere insieme due spinte opposte: risalire alla sorgente di una disciplina artistica, riscoprendone l’essenza, e allargarla, forzarla verso nuove frontiere. È creativo perché è come se tornasse alla dimensione della creazione, a quella condizione delle origini e riporta tutto a “come doveva essere”. È come quando due giovani si innamorano e uno dice all’altra: è come se ti conoscessi da sempre. L’originario e il nuovo si toccano nel gesto creativo del genio.

Il genio di una particolare “arte” (può essere lo sport come la musica, la filosofia come il governo della Chiesa, la teologia come la matematica o la politica...) con il suo gesto realizza sempre una cosa nuova che però è al tempo stesso la realizzazione piena dell’antica promessa insita in quell’arte. Fedeltà e tradimento paradossalmente coincidono nel gesto artistico dei grandi geni. Abbiamo citato McEnroe nel tennis, ma pensiamo ad Alì nella boxe o a Dylan nella musica: essi “tradiscono” ma proprio così realizzano in pieno la loro arte, quella disciplina raggiunge con questi artisti la più bella fioritura. Alì non era il pugile più forte, ma ha messo l’intelligenza e la velocità dentro uno sport che prima di lui era solo una gara di forza bruta. Nell’incontro con Foreman, campione dai pugni devastanti, Alì ha sovvertito quasi tutte le regole della boxe e proprio così ha elevato quello sport ad un livello superiore. Dylan quando passa dal folk al rock, miscelandoli insieme, viene rifiutato dai fans duri e puri della prima ora che gli urlano “Giuda!”, ma proprio così riesce a creare una musica che sviluppa integralmente i semi originali dei due generi musicali. In qualche modo si può dire che questi geni, nel loro apparentemente “tradimento”, non aboliscono la legge propria dell’attività che praticano, ma la portano a compimento. Così ha fatto Maradona, giocatore che non era assiduo negli allenamenti e nel rispetto formale di tutti le regole del calcio, ma che con la palla al piede ha raggiunto livelli sorprendenti e ineguagliati.

Che poi le regole del calcio non sono tante. Una è quella stabilita da un altro artista, il cantautore romano Francesco De Gregori che, in una famosa canzone dei primi anni ’80, proprio quando scoppiava il “fenomeno” Maradona, ha sancito che la grandezza di un giocatore non è nei risultati conseguiti ma nello stile, per cui non bisogna «aver paura di sbagliare un calcio di rigore» perché «il campione lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia». E quindi Maradona è stato un campione straordinario: del suo coraggio possono “parlare” le sue caviglie, dell’altruismo possono testimoniare i suoi compagni di squadra.

Nella seconda metà degli anni ’80 il calciatore argentino ha vinto tutto quello che si può vincere nel calcio, in particolare due campionati in Italia con il Napoli e la coppa del mondo con l’Argentina nei mondiali del Messico e tutti i cronisti ripetono che questi titoli Maradona li ha vinti praticamente “da solo”, espressione poco gentile che lui stesso non avrebbe apprezzato. Il punto è che Maradona è stato un grande nel senso che Chesterton (un altro genio) dava a questa parola: «Grande non è colui che fa sentire piccoli gli altri, ma che li fa sentire grandi». Questo è anche il ruolo del n. 10 di una squadra, il cosiddetto “regista”. Il regista nel calcio, in genere, “regge” la squadra ma non segna, quello lo fa il n. 9, la punta, il goleador, il regista invece non “finalizza il gioco” come si suol dire, ma “serve” e, per precisione, serve degli “assist”, una bella parola che sottolinea questa dimensione di servizio. È un “assistente” il regista, uno che accompagna gli altri e li sostiene.

I filmati che stanno imperversando in questi giorni sul web mostrano i tanti goal, molti di questi veri e propri capolavori della storia del calcio, ma la grandezza di Maradona, da vero regista in mezzo al campo, era la generosità, appunto l’altruismo con cui creava occasioni, apriva squarci di gioco sorprendenti e permetteva a tutti gli altri di esprimersi al meglio. Questa dimensione di servizio reciproco, in cui tutti danno il proprio peculiare contributo, rende speciale il gioco del calcio, gioco di squadra in quanto tale fondato sulla necessaria umiltà di chi vi partecipa e proprio per questo tanto amato da Papa Francesco che spesso ha preso questo sport come metafora della (buona) vita.

Infine, la fantasia. Qui poco da dire, è forse la caratteristica propria del genio creativo e su questo Maradona ne aveva da vendere. Più fantasia meno muscoli, un po’ l’opposto del calcio di oggi. Del resto il n. 10, il regista è il giocatore che deve essere anche un “fantasista”. Anche per questo può permettersi di avere qualche chilo di troppo, il suo compito non è correre ma di far correre la palla, di dargli la direzione giusta, che spesso è quella più sorprendente, inedita, spiazzante. Ed è bello constatare che quando si citano i più grandi campioni della storia del calcio sono quasi tutti dei n. 10, dei fantasisti. C’è chi dice che il più grande degli anni ’50 sia stato Di Stefano, negli anni ’60 Pelè, negli anni ’70 Crujiff e negli anni ’80 proprio lui, Maradona: sono tutti registi. E prima ancora di Di Stefano, a cavallo tra gli anni ’40 e i ’50, come non ricordare il grande giocatore ungherese Puskas, un altro regista, spesso paragonato anche fisicamente a Maradona, che fu comprato dal Real Madrid quando era di 18 chili in sovrappeso, guadagnandosi il soprannome di Cañoncito, cioè “Cannoncino” ma che con il Real segnò 156 gol in 180 presenze. Sovrabbondanza di peso ma di fantasia, non di muscoli.

di Andrea Monda