Il lungo reportage di Sandra Manzella dal lebbrosario del Cairo

Ribaltare la disperazione

varobj3121379obj2035841.jpg
27 novembre 2020

Già la copertina racconta molto. La foto ritrae una donna di spalle che cammina con una cesta in testa; sulla sinistra un giardino, a destra una semplicissima costruzione in cemento. Nella foto dominano i toni del grigio-nero interrotti solo dalle persiane arancioni dell’unica finestra visibile. Si presenta così L’Oasi delle Rose (Bologna, Edb, 2020, pagine 176, euro 15), lungo reportage di Sandra Manzella da Abu Zaabal, il lebbrosario a una quarantina di chilometri dal Cairo, l’unico rimasto in Egitto dopo la chiusura di quello di Alessandria. Un luogo che pochi conoscono, e che quei pochi preferiscono non nominare. Grazie a suor Attilia Dall’Armi, missionaria comboniana ora scomparsa, a cui è dedicato il libro, conosciuta per caso nel 2004 nella basilica cattolica del Cairo, Manzella — che aveva letto e sentito parlare della lebbra ma non si era mai confrontata con la sua realtà — entra per la prima volta ad Abu Zaabal. Sorto negli anni Trenta del Novecento, il lebbrosario si compone oggi di tre reparti: la sezione femminile, quella maschile e il cosiddetto centro (l’Idara), cuore pulsante della struttura con sale operatorie e ambulatori. Abu Zaabal comprende anche un villaggio: le famiglie dei malati possono stare accanto ai loro congiunti e vivere una vita il più possibile normale. Se oggi infatti, presa in tempo, la lebbra (che ancora colpisce oltre 200.000 persone nel mondo) si cura, a fine trattamento le persone non più contagiose restano però sfigurate. Il che rende impossibile per loro tornare a vivere nelle città o nei paesi di provenienza. Se dunque la lebbra continua a essere marginalizzata ed esclusa dalla comunità sia durante la malattia che dopo la guarigione, il libro di Manzella — corredato da lievi fotografie in bianco e nero — ne racconta invece il riscatto. Perché — come emerge chiaramente dagli incontri dell’autrice con i malati, uomini e donne che parlano volentieri con chi è disposto ad ascoltare le loro storie — il mondo doloroso e difficile di Abu Zaabal è anche un mondo solidale e ricco di progettualità. C’è Sayeda, abbandonata dall’amatissimo marito; Amal, per cui il lebbrosario è diventato una seconda casa in cui sentirsi utile; Mohamed che ha scoperto di essere malato poco dopo la laurea, e che una sera, durante una festa nella sezione femminile, si è innamorato di Nour. C’è Samia, oggi cinquantenne, arrivata al lebbrosario ancora bambina e lì adottata come figlia da Raia, che oggi diventata cieca è accudita proprio da Samia, che guadagna qualcosa rivendendo bibite e biscotti nella struttura.

Poi ci sono coloro che hanno reso il lebbrosario un ospedale moderno e pieno di fiori, trasformando un luogo fetido di abbandono in un’oasi colorata e profumata («in un luogo così doloroso ci deve essere una positività nell’ordine, nei coloro, negli spazi verdi, per alleviare, almeno esteticamente, il sentimento della disperazione»). Un’organizzazione attenta ai numeri e alle esigenze, in una vicinanza e una cura che non sono solo sanitarie, ma umane. A fare tutto questo sono le suore missionarie comboniane ed elisabettine, insieme in una collaborazione che ha anticipato di decenni le iniziative intercongregazionali oggi piuttosto diffuse. E se le voci delle prime religiose raccontano le grandi e inevitabili difficoltà degli inizi, sono però tante le testimonianze degli atti di generosità che hanno permesso nel tempo la costruzione degli alloggi, delle sale operatorie, dei laboratori di protesi, e il mantenimento della cura quotidiana.

Abu Zaabal è dunque un cantiere di speranza: negli anni, a ogni nuova visita Manzella nota gli straordinari cambiamenti, le migliorie volute dalle missionarie che — assieme al bello e al pulito — promuovono con il loro impegno costante l’accoglienza, il rispetto e la dignità.

La sofferenza, l’abbandono e il dolore che la malattia porta con sé, la sua realtà di corpi sfigurati e l’emarginazione sociale non sono affatto celati nel libro. Ma l’autrice racconta anche l’altro possibile panorama legato alla malattia, in cui «la disperazione diventa speranza» e la solidarietà «pane e dignità di vita».

di Silvia Gusmano