Poliedro - Un riflessione sul tema dell’abbandono/1

Perché ci hai abbandonato?

Edward Hopper «Automat» (particolare, 1927)
26 novembre 2020

La ferita primigenia dell’uomo e la sua possibile cura


Nel giacimento di Fratelli tutti si trova anche minerale radioattivo. La quantità è esigua e potrebbe passare inosservato. Eppure pulsa un’energia potente e paurosa, il cui campo di forze si estende ovunque. Mi riferisco ai brevi passaggi in cui Francesco parla di “abbandono”, o meglio: del sentirsi abbandonati (Fratelli Tutti 28, 72, 85, 97, 234, 273).

Rifiutiamo di vivere da fratelli e sorelle non per capriccio, generico egoismo, o cattiveria superficiale. Dai fratelli e le sorelle ci allontaniamo per paura: dovendo dividere con altri figli il pane, il posto, le risorse, ne resterà a sufficienza per me? Temo che gli altri figli esauriscano le scorte della vita, privandomi dell’indispensabile. Non tener conto di questa profonda, primitiva, multiforme paura, significa esporsi al moralismo che scuote, ma non tocca; urta, ma non smuove; urla, ma non incoraggia. Senza questa paura, non saremmo cattivi. Lo diventiamo certamente dandole ragione.

A ben vedere il mirino della paura non è puntato innanzitutto su fratelli e sorelle. Il bersaglio è più in alto: Dio. Fin dall’inizio abbiamo la sensazione di essere stati abbandonati da chi ci ha messi al mondo. L’asso nella manica del serpente è proprio questo: chi ti ha dato la vita, sul più bello, ti volta le spalle, riservando a sé quanto è “buono”, “gradevole” e “desiderabile” (Genesi 3, 7). Tutti gli incoraggiamenti attesi e non arrivati, le promesse non mantenute, le carezze aspettate e mai ricevute, la fame e la sete non onorate, il riconoscimento e la riconoscenza rifiutati, gli affetti strappati dall’infedeltà, dalla malattia e dalla morte, la vita che se ne va, non fanno che confermare la sensazione di esser stati abbandonati da chi doveva prendersi cura di noi. All’inizio del terribile e magnifico xx secolo, Martin Heidegger l’aveva scritto con lucidità: ciascuno, prima o poi, ha la sensazione di “essere gettato” nel mondo. Essa disorienta, fa sentire spaesati, suscitando angoscia e solitudine. Una miscela esplosiva da cui emergono strani mostri tra cui, appunto, la paura. Facciamo fatica a sentirci fratelli, perché ci riteniamo orfani e, come tali indifesi, minacciati perfino dal parente più prossimo.

Chi si sente abbandonato e orfano prova un formidabile senso di credito: il mondo, tutti gli devono qualcosa, sono in debito. Perciò l’abbandonato si autorizza a risarcirsi da solo, come e quando vuole, a scapito di tutti, riprendendosi con gli interessi quanto ritiene non gli sia stato dato o gli sia stato sottratto. Si attiva una voracità camuffata da giustizia riparativa: chi mi ha derubato o potrebbe rapinarmi deve ripagare (magari in anticipo, preventivamente). Perciò rubare risorse altrui non è furto, ma riappropriazione, ripresa di possesso del bene di cui si è stati privati. In tal modo chi dà ragione al senso di abbandono crea altri orfani che, a loro volta, si sentiranno legittimati ad autorisarcirsi.

Non sempre chi si sente abbandonato diventa vorace. Infatti, al contrario, può inclinarsi verso il disgusto, il disinteresse, l’inappetenza nei riguardi della vita: è inutilmente pericoloso prendersi cura, interessarsi di qualcuno, legarsi a chissà chi, perché certamente — come già capitato — abbandonerà. Il senso di abbandono partorisce ingordi o disgustati, insaziabili che producono affamati, o gente nauseata da tutto e tutti. Tuttavia il sentimento di abbandono garantisce alcuni privilegi: quello del “tutto mi è permesso, dovuto” e quello del “niente vale la pena”. Perciò non è infrequente che si preferisca rimanere ostinatamente nella posizione dell’“abbandonato” pur di non perdere questi sinistri vantaggi.

Se il Vangelo non arriva a questo livello profondo dell’anima, si rischia di curare qualche sintomo della mancata fraternità, senza sradicarne la causa. Si copre la ferita con un po’ di cipria, ma non la si cura. Anzi, il cosmetico infetta la piaga. Ma come si guarisce?

Ormai da cinquant’anni in esilio, Israele si sente abbandonato. Dio comanda: «Consolate il mio popolo!» (Isaia 40, 1). Ciò significa che il Signore riconosce nei suoi interlocutori il potere di consolare e il dovere che ne consegue, riassumendo qualsiasi vocazione e missione nell’atto di consolare. Qualora una vocazione, una missione non fosse in vista della consolazione, sarebbe come quel fico infruttuoso che il padrone del campo intende tagliare alla radice. Si cura il senso di abbandono solo con la consolazione, cioè grazie a un affetto che per calore, cura, giustizia e fedeltà avvince e convince al punto da asciugare le lacrime e calmare i singhiozzi di chi è o si sente orfano… e di chi orfano vorrebbe rimanere. Consola solo chi è fedele alla parola data, sia essa sentimentale, professionale, economica, sociale, politica. Consola chi, né ingordo né disgustato, accetta di essere a sua volta consolato, incoraggiato. Come Paolo che ringrazia d’esser stato consolato, poiché può a sua volta consolare gli afflitti, gli abbandonati (2Cor 1 ,3—7).

In Fratelli tutti, Francesco indica una consolazione quotidiana, feriale, alla portata di tutti. Facile da donare e ricevere, semplice da cogliere. Eppure rara: la gentilezza (ft 222-223). Ad essa ci si deve riabilitare, come si trattasse di un braccio che per cattiva abitudine o trauma ha perduto il movimento completo, agile, fluido, privo di sforzo. La gentilezza non è il vacuo e vaporoso galateo di chi vuol darsi un tono, ma affabilità, tatto, buon gusto. La stessa parola “gentilezza” ci aiuta a capirne il senso. Nella Roma antica i nobili erano divisi in “genti”, sicché “gentile” ha assunto il significato di “distinto”, “signorile”. Insomma: un uomo o una donna dal portamento aristocratico, anche senza essere ricco. Siamo nobili, figli e figlie di alto rango, con tanto di anello al dito (Luca 15, 22). Altro che orfani! Siamo figli e figlie di un gran Signore! Di uno che ha così tanto affetto e tempo, così tanti soldi da nutrire abbondantemente perfino le cornacchie, da vestire di seta le primule e di pelliccia le stelle alpine. Quando lo capiremo, i frutti della fraternità saranno abbondantissimi.

di Giovanni Cesare Pagazzi