I simboli dell’ultima cena nella percezione dei «sensi spirituali»

Luce che si farà pane

Jean-Marie Pirot (noto come Arcabas), «Pellegrini di Emmaus» (2006)
25 novembre 2020

Anticipiamo l’articolo Cena (l’ultima)  in uscita sul numero 1 della rivista «Pantagruel» a cura di Massimo Donà e Elisabetta Sgarbi (La nave di Teseo, pagine 944, euro 27), in libreria dal 26 novembre.

«Riverberasti l’infermità del mio sguardo raggiando verso di me con veemenza, e tremai tutto di amore e tremore, e scoprii che ero lontano da te, nella regione della dissomiglianza; come se ascoltassi la tua voce dall’alto: “Io sono il nutrimento degli adulti: cresci e ti nutrirai di me. E tu non trasformerai me in te come cibo della tua carne, ma tu sarai trasformato in me”» (Confessioni, vii, 10.16). Così Agostino ricorda l’incontro di luce che ne ha capovolto la vita — cum te primum cognovi, “quando t’ho conosciuto la prima volta” — nel libro vii delle Confessioni. Il passo descrive, in prima battuta, il repentino passaggio dal vedere all’udire per esprimere la percezione di quanto accade. Dalla vista all’udito, secondo il registro dei sensi spirituali: perché l’anima non solo vede, ma ode, gusta, odora, tocca...

La vista è l’organo dell’atto filosofico (il theoreîn dei greci), l’ascolto è tipico della rivelazione biblica: l’ebreo non vede il volto dell’Altissimo, ne ascolta la voce, e l’apostolo Paolo scrive che la fede viene dall’ascolto (ex auditu) (cfr. Romani 10, 17). Anche se queste distinzioni van fatte con discrezione, tanto più che nell’evento di Gesù il Cristo si dà una sintesi pregnante delle due cose: Gesù è al tempo stesso l’immagine (eikón) e la parola (lógos) del Padre. Il Lògos «che carne si è fatto» (Giovanni 1, 14) è «l’icona del Dio invisibile» (Colossesi 1, 15). Fenomenologicamente il gioco dei sensi spirituali attesta che Agostino è introdotto in una regione dell’essere che trascende sia quella intuita dalla philo-sophia greca sia quella sperimentata nella fede biblica. Tanto più che la voce rimanda infine al toccare. Anzi, al mangiare. Dice infatti: «Io sono il cibo degli adulti. Cresci e mi mangerai. E non tu trasformerai me in te, come avviene per il cibo, ma tu sarai trasformato in me». La voce promette che la luce si farà pane. Il toccare tende all’intimità dell’abbraccio. Tende, al limite, alla trasformazione di sé nell’altro da sé attraverso il darsi di lui in cibo. Una regione dell’essere, dunque, in cui non solo mangiare con l’altro — insieme con la sponsalità è il simposio il luogo epifanico dell’ontologia, Platone insegna — ma nutrirsi dell’altro, come nell’ultima cena. Dalla regione della dissomiglianza all’assimilazione più intima che si possa pensare. Rovesciamento radicale: la regione della dissomiglianza è capovolta, da cima a fondo, per il fatto che la luce promette di darsi in pane per trasformare in sé chi lo riceve. La dissomiglianza è rovesciata in somiglianza: anzi, in omoousía (consostanzialità). Tutto — come nel viluppo quasi inestricabile eppure percettibile d’una promessa — in quel cum te primum cognovi che rimanda al racconto della cena (l’ultima).

Il racconto della cena (l’ultima). Letto nella convergenza dei dati offerti dalle due linee di tradizione che l’esegesi riconosce nell’attestazione neotestamentaria: quella paolino-lucana e quella marciano-mattaica, cui si congiunge, con ricca originalità, il quarto vangelo. Il primo dato, che introduce al cuore dell’intenzione istitutrice di Gesù, è che la cena è avvolta dallo sguardo sconfinato d’amore di quel Dio che Gesù ha vissuto e testimoniato al mondo come Abbà. L’incipit della cena e lo spazio di luce che in essa si dischiude son segnati perciò dalla eucharistia (Paolo e Luca) ovvero dalla euloghía (Marco e Matteo): due termini che alludono alla berakhá, la preghiera ebraica di ringraziamento e lode. Tutto è sotto lo sguardo di misericordia dell’Abbà, tutto è disposto nel suo misterico disegno che ora si dispiega. Niente sfugge alla forza redentrice e trasformatrice del suo amore. Ma tale disegno si fa storia grazie all’adesione del Figlio che si appresta a vivere il dono di sé, sino alla fine, entro la trama insensata di ciò che ingiustamente gli è inflitto: «Non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (cfr. Marco 14, 36). La cena è eucaristia — radicalmente — ringraziamento e lode, rivolta dal Figlio e nel Figlio all’Abbà: perché il Figlio, così, adempie la buona e bella notizia del disegno in atto del Padre.

Di qui un secondo dato, altrettanto decisivo. Se l’Abbà è l’indiscusso ma nascosto regista del dramma di liberazione che prende figura nella cena, il Figlio, Gesù, ne è il protagonista. E ciò significa che ne è l’attore libero, consapevole e responsabile. La libertà di Gesù, nel far accadere la volontà d’amore dell’Abbà, è il cuore della cena. Senza di essa nulla avrebbe senso. La libertà di Gesù di fronte al Padre, nell’intima e reciproca intesa, se da un lato disambigua il volto e il cuore di Dio — in lui non c’è tenebra, né doppiezza, né rivendicazione, né giustizia vendicativa — dall’altro penetra con la luce dell’amore che è libertà, e della libertà che è amore, la tenebra più fitta e impenetrabile del cuore. Il lessico di cui fanno uso i racconti della cena, nella sua quotidiana semplicità, è eloquente. Ecco il racconto di Marco: il più scarno ed essenziale. «Prese, spezzò, diede...» (cfr. Marco 14, 22-23). L’intenzione di Gesù ha come oggetto il destino della sua esistenza e missione. Che egli, in tutto, riceve dall’Abbà. E che assume e fa proprio nel suo senso risolutivo con gesto sovrano, sereno, solenne, di libertà e consapevolezza («prese»), per condividerne il frutto («spezzò») e donarlo («diede»): per parteciparlo cioè in libera convivialità. In questi gesti, il Figlio dell’uomo che è il Figlio di Dio es-pone se stesso. Se lo “spezzare” allude, da un lato, al realismo della dedizione, che ha la concretezza del corpo straziato e del sangue versato e, dall’altro, alla distribuzione implicita nel gesto, per cui ciascuno ne è oggetto e termine inteso; il «dare» esibisce la logica intenzionale dell’esistenza di Gesù che così è compendiata. Egli si dà. E cioè non solo liberamente offre il suo corpo in cibo, ma così si trasferisce in chi l’accoglie. Per questo, il «diede loro» s’esprime e traduce nel «prendete». La dedizione si realizza e compie quand’è assunta e nella misura in cui è assunta. In questa parola — «prendete» — gli invitati alla cena son costituiti tali: coinvolti e abilitati nel far vivere in sé il Figlio dell’uomo che è il Figlio di Dio. Evidente, nella logica di una dedizione così intesa, la coscienza che in Gesù dimora luminosa e lucida — nella relazione all’Abbà —, del senso di ciò che sta per accadere. Egli «offre la sua vita e così la prende di nuovo» (cfr. Giovanni 10, 17). La ri-prende non solo nel senso che è donando la sua vita che di nuovo la riceve; ma nel senso che, donandola, la riceve nuova moltiplicandola in chi l’accoglie e la fa sua. La dedizione, in tal modo, suscita la convivialità e la fraternità, che tale è e diviene se riscopre e rivive la sua radice e forma nella dedizione. «Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha dato anche al Figlio d’avere in se stesso la vita» (Giovanni 5, 26). La cena è figura efficace di quella dedizione infinita che ha sorgente nel Padre e che, attraverso il Figlio, coinvolge chi ne condivide il dono in libertà.

Nei racconti della cena ricorre una preposizione: hypér, «per», che nella sua esiguità dischiude un abisso — quello più profondo. È lo stesso «per» che, riecheggiando e sviscerando il significato preannunciato, nel Primo Testamento, dai carmi del Servo sofferente di Jhwh, è al cuore del lóghion cristologico più essenziale e concentrato: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e per dare la propria vita in riscatto per molti» (Marco 10, 45). Il «servire» v’è esplicitato nel «dare la vita in riscatto». La stessa dinamica e finalità espresse nel «per» dell’ultima cena. Si tratta di prendere sul serio — e sino in fondo — la presenza del male e la fatticità della tragica realtà che ne è l’effetto, nella vita personale e nella storia del mondo. Gesù scende nell’abisso di morte in cui l’uomo è imprigionato. Solo prendendo su di sé l’oscura conseguenza della contraddizione del peccato, attesta che «più forte della morte è l’amore» (cfr. Cantico 8, 6). I due linguaggi, quello della cena e quello del sacrificio, quello dell’espiazione vicaria e quello della convivialità fraterna, non sono antagonisti né vanno assorbiti l’uno nell’altro. Prendere sul serio la «potenza immane del negativo», decifrare, cioè, con lucidità e coraggio, ovunque essi si annidino, i tratti e le trame della strategia d’inganno e malvagità disegnati dal «principe di questo mondo», significa prendere sul serio la sapienza e la potenza dell’amore.

Di qui, solo di qui, la speranza. Quella che — attesta Paolo — «non delude: perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Romani 5, 5). Sì, lo Spirito Santo, come l’Abbà e con il Figlio, è il terzo co-agonista, tutto divino — eppure così intimamente vicino al cuore da esservi versato — della cena. Certo, a un primo sguardo, di Lui non si dice parola. Ma è lo Spirito Santo il soffio di vita in cui accade il dono del Padre e accade il dono del Figlio. È Lui, anzi, il dono stesso che, dal Padre, il Figlio versa nei cuori. «Versare». Il verbo è lo stesso: in Paolo che parla dello Spirito «versato nei cuori»; e in Gesù che offre ai discepoli «il sangue dell’alleanza versato per molti». Del resto, l’alleanza di cui qui si tratta — quella che prende origine e vigore dal e nel sangue di Gesù — è quella nuova e definitiva: «Ecco, verranno giorni, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. (...) porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: “Conoscete il Signore”, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande» (Geremia 31, 31.33-34); «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme» (Ezechiele 36, 26-27). Il sangue «versato» che Gesù offre col calice nella cena, se da un lato evoca senz’altro, nella separazione dal «corpo dato», il realismo cruento della morte; dall’altro esprime il dono di sé «sino alla fine» (cfr. Giovanni 13, 1): sino, appunto, all’effusione del sangue. E si propone come il segno tangibile della condivisione che Gesù fa della vita di Dio in sé — lo Spirito — agli uomini. Scrive Caterina da Siena: «’l sangue [del Cristo crocifisso] è intriso con la calcina della deità e con la fortezza e il fuoco della carità [lo Spirito Santo]». Il sangue di Cristo — che è il suo Spirito — versato nei cuori fa scorrere in essi la vita di Dio: lo stesso sangue divino.

Dalla cena di Gesù alla cena dei discepoli: il racconto di Emmaus (Luca 24, 13-35). Due discepoli scendono da Gerusalemme sconsolati e spenti, nella mente e nel cuore. Non hanno afferrato il senso e la grazia di quant’è accaduto. Quando a un tratto un viandante a loro si accosta e prende a interpretare in tutte le Scritture ciò che lo riguarda. Fino a che, seduto a tavola con loro, ripete i gesti della cena: «Prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro» (24, 30). È allora che «si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (24, 31). In quel riconoscimento trovando conferma e sigillo l’ardore che bruciava loro nel petto «mentre — si confidano l’un l’altro — conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture» (24, 32). Essi non solo riconoscono in colui che a loro s’è accompagnato il Gesù della cena. Ma comprendono e accolgono il tenore misterioso e realistico di quel «prendete e mangiate, questo è il mio corpo... prendete e bevete, questo è il mio sangue». Così che, mediante quelle parole, il momento da loro vissuto vien tirato dentro il momento della cena di Gesù. Tanto che il riconoscimento del viandante coincide col «diventare egli non (più) da loro veduto» (24, 31). Perché ormai vive in loro: «Io in loro e Tu in me» (Giovanni 17, 23). Con suggestivo linguaggio filosofico Antonio Rosmini intuisce — come già Agostino — che Gesù nella cena si è «inoggettivato»: ha «trasportato» sé al punto da «in-esistere» in noi affinché noi ci si inoggettivi in Lui e, per Lui, nell’Abbà. È «questa “inoggettivazione” morale in Gesù Cristo — spiega — la formula breve (...). L’uomo dee sentire, pensare, fare, e patire, avere, essere ogni cosa, in Cristo». È il mistero della cena (l’ultima): seguire Gesù nel movimento di dedizione e identificazione che lo fa scendere negli abissi — sino agl’inferi — del cuore, della mente, della vita. In ogni tempo e in ogni situazione. A tutti i livelli e in tutte le dimensioni dell’umana esperienza: fisica, psichica, spirituale, culturale. Accettando — come scrive Teresina di Lisieux — di «mangiare il pane del dolore» per condividere con tutti il pane della gioia e della libertà.

di Piero Coda