Almeno 600 contadini massacrati dalle milizie tigrine

Etiopia: l’Onu chiede protezione per i civili

Rifugiati etiopi in fuga dal Tigray. Campo di Fashaga, al confine con il Sudan (Reuters)
25 novembre 2020

Si fa sempre più sanguinoso il conflitto in corso da settimane in Etiopia, nato dal contrasto politico tra governo federale e il Fronte di liberazione popolare del Tigray (Tplf), partito di governo locale. In un solo giorno sono state barbaramente uccise almeno 600 persone, la maggior parte delle quali di etnia Amhara, nel nord del Paese.

Il massacro è avvenuto il 10 novembre scorso nella città di Mai Kadra, nel Tigray, la regione dove il primo ministro Abiy Ahmed ha lanciato, all’inizio del mese, un’offensiva militare contro i vertici ribelli tigrini del Tplf. Lo denuncia la Commissione etiopica per i diritti umani (Ehrc), che in un rapporto accusa una milizia informale di giovani tigrini e le forze di sicurezza fedeli alle autorità locali di essere gli autori della «carneficina» ai danni di contadini stagionali non tigrini.

Ieri l’Ehrc ha fornito un resoconto più dettagliato, accusando il gruppo di giovani — conosciuto come “Samri” — di aver preso di mira i lavoratori stagionali di etnia non tigrina che lavoravano alle coltivazioni di sesamo e miglio nell’area. La Commissione ha spiegato di aver verificato quanto accaduto in seguito all’invio di un gruppo di esperti in diritti umani a Mai Kadra. Come afferma il rapporto, i responsabili «hanno ucciso centinaia di persone, picchiandole con manganelli, accoltellandole anche a colpi di machete e strangolandole con corde. Hanno poi saccheggiato e distrutto le proprietà».

Il massacro — si legge ancora — «potrebbe rientrare tra i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra». La strage è stata denunciata anche da Amnesty International, che aveva riportato «centinaia di persone accoltellate o colpite a morte».

Intanto aumenta drammaticamente il numero di rifugiati etiopi che si stanno riversando nel Sudan orientale per sfuggire alla violenza e ai combattimenti. Si calcolano ormai più 40.000 persone in fuga dallo scoppio della crisi. Nel corso del fine settimana, oltre 5.000 persone, tra cui donne, bambini e uomini, sono stati costretti ad abbandonare le proprie case. È quanto si apprende da un comunicato dell’Alto commissariato delle Nazione Unite per i rifugiati (Unhcr), nel quale si continua a esprimere preoccupazione per i civili, tra i quali anche operatori umanitari presenti nel Tigray.

L’Agenzia e i partner stanno consegnando e distribuendo aiuti salvavita, tuttavia le attività di risposta umanitaria continuano a misurarsi con criticità logistiche. Il numero degli alloggi non è sufficiente per soddisfare le crescenti esigenze. Sono in corso i trasferimenti dei rifugiati lontano dal confine, ma le distanze limitano il numero di persone che possono essere trasportate all’insediamento di Um Rakuba, nell’entroterra sudanese. Fino all’altro ieri risultavano trasferite poco più di 8.000 persone. Occorre dare assistenza a bambini malnutriti, a donne incinte e puerpere. L’agenzia esprime crescente apprensione anche in merito ai 100.000 rifugiati eritrei presenti sul territorio.

Il segretario generale dell’Onu, António Guterres, si è detto «profondamente preoccupato per gli sviluppi della situazione nel Tigray e nell’area circostante». Mentre continuano ad arrivare notizie di una potenziale offensiva militare nella capitale regionale, Macallè, Guterres ha esortato i leader etiopi a fare tutto il possibile per proteggere i civili, sostenere i diritti umani e garantire l’accesso umanitario per fornire assistenza alle persone in fuga. È quanto riferisce il portavoce del Palazzo di Vetro, Stephane Dujarric, in una nota, precisando che Guterres chiede inoltre «la libera e sicura circolazione delle persone in cerca di sicurezza e aiuto, indipendentemente dalla loro identità etnica, attraverso i confini nazionali e internazionali».

Il segretario generale ha ribadito anche il pieno sostegno dell’Onu all’iniziativa del presidente di turno dell’Unione africana (Ua), il sudafricano Cyril Ramaphosa, per facilitare soluzioni pacifiche.

Domenica scorsa il premier ha lanciato ai dirigenti tigrini un ultimatum di 72 ore per arrendersi. La risposta del leader del Tigray, Debretsion Gebremichael, non ha lasciato spazio a mediazioni. «Siamo un popolo che ha i suoi principi e siamo pronti a morire». Intanto la questione etiopica è tornata sotto i riflettori del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che ieri ha dato il via, a porte chiuse, alla sua prima riunione sul conflitto in corso da settimane nella regione, su richiesta dei membri europei.