LE TAPPE VERSO L’UNITÀ
Il Documento di Ravenna ha segnato una svolta riguardo alle questioni della conciliarità e dell’autorità

Dialogo sulla Chiesa

Duccio di Buoninsegna « Vocazione di Pietro e Andrea» (1308-1311)
25 novembre 2020

«Siamo convinti che la dichiarazione sulla comunione ecclesiale, la conciliarità e l’autorità rappresenta un positivo e significativo progresso nel nostro dialogo, e che essa fornisce una solida base per la discussione futura sulla questione del primato nella Chiesa a un livello universale»: con queste parole si conclude il documento Le conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa. Comunione ecclesiale, conciliarità e autorità, il cosiddetto Documento di Ravenna, dal luogo dove venne approvato dalla Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa ortodossa, il 13 ottobre 2007, durante la decima sessione dei lavori. Al momento della firma la Commissione mista aveva alle spalle una storia tanto articolata quanto esemplare del cammino ecumenico della stagione che si era aperta con la conclusione del concilio Vaticano II. Proprio alle vicende ecumeniche degli anni della celebrazione del concilio risale la genesi dell’organismo che tenne la sua prima sessione a Patmos, in Grecia, dal 29 maggio al 4 giugno 1980, dopo essere stato istituito anche grazie all’azione di Giovanni Paolo II, il quale si era fatto interprete delle speranze nate durante il Vaticano II legate a una nuova stagione dei rapporti tra cattolici e ortodossi. Al concilio, infatti, aveva preso parte un significativo numero di osservatori delle Chiese ortodosse, come segno tangibile di un interesse ecumenico per ciò che la Chiesa cattolica stava discutendo.

Il 5 gennaio 1964 Paolo VI aveva incontrato a Gerusalemme il patriarca ecumenico di Costantinopoli Atenagora in un pellegrinaggio in Terra Santa che per Papa Montini voleva, a concilio ancora aperto, porre l’accento sull’importanza di tornare alle origini del cristianesimo per sostenere un processo di rinnovamento della Chiesa. L’incontro tra Paolo VI e Atenagora aveva avuto un’eco mondiale straordinaria, anche per le immagini che erano subito circolate, ma non aveva certo cancellato le tensioni e le ostilità tra cattolici e ortodossi, soprattutto in alcuni luoghi, per una lettura teologica apologetica che enfatizzava vicende storiche, più o meno lontane, considerate ferite aperte, anche se non erano mancate, nella prima metà del XX secolo, manifestazioni di comunione. Le relazioni sviluppatesi da quel primo viaggio avevano portato alla definizione dell’idea della creazione di una commissione, non solo tra Roma e Costantinopoli, ma tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, in tutte le sue componenti, anche se questa idea si era dovuta confrontare con la situazione nella quale si trovavano alcune Chiese ortodosse la cui libertà era fortemente limitata dal fatto di vivere all’interno dei confini dell’impero sovietico. Fin dai primi passi la Commissione mista aveva affrontato la questione della comunione ecclesiale, considerata centrale per il cammino ecumenico, tanto da giungere a discutere della natura del sacramento dell’ordine in relazione alla comunione e della successione apostolica nella vita della Chiesa. I lavori, che tante speranze avevano suscitato (anche perché accompagnati da gesti concreti di riconciliazione e di condivisione tra cattolici e ortodossi), si erano indirizzati, dopo la pubblicazione del Documento di Valamo (1988), alla questione delle Chiese unite a Roma, che il crollo del Muro di Berlino aveva restituito alla luce della storia, dopo decenni nei quali erano state costrette a una vita clandestina dalle persecuzioni del regime comunista. Sulla questione delle Chiese unite la Commissione mista si era arenata tanto da far temere che la sua esperienza fosse giunta al capolinea, ma Benedetto xvi, appena eletto pontefice, volle rilanciare l’organismo internazionale a partire proprio da dove la riflessione teologica era giunta, cioè la necessità di un approfondimento sul rapporto tra Chiesa universale e Chiesa locale quale luogo privilegiato per vivere la comunione.

Il Documento di Ravenna deve essere collocato in questo orizzonte, come si coglie dalla sua lettura. Nella prima parte la presentazione dei fondamenti della conciliarità e dell’autorità costituisce un quadro, sufficientemente esaustivo, dello stato di un dibattito che mostrava quali e quanti passi erano stati compiuti dalla ricerca teologica in campo cattolico e ortodosso per evidenziare gli elementi di comunione già in essere. La seconda parte era dedicata alla triplice attualizzazione della conciliarità e dell’autorità a livello locale, regionale e universale, dove si mettevano in luce le questioni aperte per testimoniare la piena e visibile comunione; alle non poche questioni ancora aperte non si proponevano delle soluzioni, ma si indicavano delle piste di ricerca da percorrere in modo da approfondire ulteriormente la dimensione ecclesiologica nella complessità emersa dai lavori della commissione, che si era interrogata sull’autorità nella Chiesa, della Chiesa e per la Chiesa Una, con una particolare attenzione alla natura del primato di Pietro alla luce della prassi e della riflessione del primo millennio. Per questo nelle conclusioni del documento si formulavano due domande — Quale è la funzione specifica del vescovo della «prima sede» in un’ecclesiologia di koinonia, in vista di quanto abbiamo affermato nel presente testo circa la conciliarità e l’autorità? In che modo l’insegnamento sul primato universale dei concili Vaticano i e Vaticano ii può essere compreso e vissuto alla luce della pratica ecclesiale del primo millennio? — tracciando un programma di lavoro che, per molti versi, è rimasto attuale. La commissione fra l’altro si era dovuta misurare con le tensioni intraecclesiali, emerse anche a Ravenna, quando la delegazione del patriarcato di Mosca non prese parte alla sessione di lavoro per contrasti, non solo formali, con il patriarcato ecumenico di Costantinopoli.

Pochi giorni dopo la firma del testo, monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto e membro della commissione, definì quanto era stato sottoscritto un passaggio fondamentale nel cammino per ristabilire la piena comunione, «figlio di maturazione ecclesiologica avvenuta in seno all’ortodossia, con la riscoperta dell’ecclesiologia eucaristica, e al cattolicesimo, con gli apporti decisivi del concilio Vaticano II e della sua ecclesiologia di comunione». Si trattava di alimentare un dialogo che suscitava tante speranze perché era dedicato a un tema — il ruolo del vescovo di Roma nella comunione di tutte le Chiese nel XXI secolo — destinato ad avere un’immediata ricaduta nella Chiesa, testimonianza di come vivere l’unità nella diversità e nella condivisione del patrimonio plurisecolare delle tradizioni. Il Documento di Ravenna costituisce una pietra miliare del dialogo ecumenico tra cattolici e ortodossi, nonostante le critiche che gli sono state rivolte per il suo contenuto e le successive difficoltà incontrate dalla commissione nella comprensione di come vivere la comunione nei tempi presenti a partire da uno studio analitico del modello del primato petrino nel primo millennio. Il ricorso alla storia delle tradizioni della Chiesa, così come si sono sviluppate in luoghi e tempi diversi, la centralità della dimensione sinodale della Chiesa per l’efficacia della testimonianza della Croce di Cristo, la ricerca della definizione di una forma di autorità evangelica nello spirito e nella lettera per presiedere alla carità nella verità, rappresentano delle questioni sulle quali cattolici e ortodossi proseguono il dialogo.

di Riccardo Burigana