Un progetto corale

Vivere da bambini in un campo profughi

Due fotografie tratte dal libro «Attraverso i nostri occhi» edito da BUR-Rizzoli
17 novembre 2020

«Non lasciamo che la loro voce resti inascoltata. Portiamola ai quattro angoli del mondo, perché ogni bambino è figlio nostro e, un bambino alla volta, cambieremo questo mondo. Ci credo con tutto me stesso»: le parole di Nicolò Govoni, pronunciate a margine della presentazione di Attraverso i nostri occhi: vivere da bambini in un campo profughi (Milano, BUR-Rizzoli, 2020, pagine 208, euro 16), nella cornice del Giardino dei Libri, rimanda ad altri Giardini, quelli dei Giusti, cresciuti all’ombra di quel «Chi salva una vita umana, salva il mondo intero».

Attraverso i nostri occhi non è solo la raccolta delle testimonianze dirette dei minori ospiti dell’hotspot di Samos, ma un progetto corale: corale, perché nasce dall’omonima mostra fotografica, che ha portato in 36 città nel mondo una raccolta di scatti, frutto dei laboratori di tecnica tenuti alla scuola di Mazì da Nicoletta Novara, e realizzati dagli stessi studenti, tra cui la giovane artista Nahid, con semplici macchine usa e getta. Non solo: è un progetto, perché i proventi del libro, da cui verrà ora tratto un documentario sulla quotidianità vissuta dagli adolescenti nei campi profughi, sono interamente destinati alle attività educative della scuola di Al Dana in Siria, fondata e gestita dalla organizzazione internazionale no profit Still I Rise, di cui presidente è lo stesso Govoni.

Nonostante la descrizione delle condizioni, psicologiche e materiali in cui si trovano i piccoli e gli adolescenti che giungono in questa isola ai margini dell’Europa riporti a immagini da girone dantesco, il testo di Govoni non perde la dimensione della favola, grazie alla delicatezza delle storie di amicizia, sopravvivenza e integrazione che si incrociano nella cornice dell’hotspot di Samos.

Conosciamo così le vicende del piccolo Nur, orfano di guerra siriano, e di Tau, partito pieno di speranze dal Congo in cerca invano di una cura per la madre, costretta ad arrendersi alla malattia. Il racconto delle ostilità iniziali tra i due intende portare l’attenzione sui reciproci pregiudizi che le singole comunità nutrono nei riguardi dei nuovi arrivati. Tentativi di prevaricazione che poi, attraverso la condivisione di un comune spazio di vita e la scoperta di un altrettanto comune passato di dolore, non possono che sfociare in dialogo e vicinanza. I travagli del loro vissuto sono immaginabili: abbiamo bisogno di guardarli «attraverso i nostri occhi», appunto quelli delle giovani voci dal campo, ripresi negli scatti che integrano il testo scritto direttamente dai ragazzi. Ed è grazie alla generosità con cui i piccoli si sono aperti che una delle più grandi tragedie di quest’epoca assume la potenza dell’autenticità e della sincerità che solo l’infanzia sa trasmettere. E poiché è proprio l’infanzia, benché spesa tra gli orrori di un campo profughi disumano, l’età che più di ogni altra naturalmente nutre la speranza, in loro si accende sempre più forte lo stupore nella scoperta di una nuova cultura, quella europea, su cui costruire un domani. È, infatti, ricorrente il tema del sogno, inteso come tensione ideale, ma anche meta: una meta a cui consapevolmente ci si prepara ogni giorno.

«La scelta della narrazione in prima persona è funzionale a descrivere la condizione dei rifugiati, senza compromettere la verità e l’intensità espressa dai loro occhi: gli stessi immortalati nelle fotografie che, da esperimento scolastico, sono divenute un caso per la stampa internazionale — spiega la curatrice del progetto, Nicoletta Novara —. L’hotspot di Samos, purtroppo, sembra lavorare sul filo sottile dell’annientamento umano, piuttosto che sul fronte dell’accoglienza. I nostri studenti combattono ogni giorno una battaglia personale di resistenza contro un sistema che non li percepisce come esseri umani in condizione di fragilità, quanto come una parte scomoda della società».

Ciò nonostante, dopo sette anni di lavoro, il primo importante obiettivo è andato in porto. «Sono orgoglioso di aver permesso a questi bambini, ignorati dal mondo, di raccontarsi senza intermediari e filtri: è un onore mettermi al loro servizio» afferma Nicolò Govoni, che, con Still I Rise, dal 2018, si occupa di educazione e protezione dei tanti minori — profughi e rifugiati — travolti e dimenticati dai processi della migrazione globale.

Dal centro di Samos, in Grecia, dove si trova uno dei più difficili hotspot europei, le operazioni sul campo si sono poi ramificate in Grecia, Turchia, Siria e Kenya. Le attività comprendono anche interventi educativi informali a migliaia di adolescenti vulnerabili attraverso Mazì, il primo centro per adolescenti profughi dell’isola, predisposto per garantire lezioni in aula, vitto, sostegno psicologico, supporto legale e protezione dei minori. Dal lunedì al venerdì, la scuola è frequentata da 130 studenti per le attività didattiche, mentre il sabato è dedicato a quelle ricreative di gruppo. Sullo stesso modello di Mazì a Samos, è stata avviata a Al Dana, in Siria, la scuola Ma’am, dove bambine e bambini dai 10 ai 14 anni studiano inglese, arabo, matematica, condividono i pasti nel refettorio comune e alle famiglie sono distribuiti materiali didattici, scorte alimentari e kit per l’igiene di prima necessità. Le condizioni di costante degrado, in cui il campo di Samos costringe i minori profughi, hanno spinto Still I Rise a presentare a giugno 2019 una denuncia penale alle procure di Samos e di Roma (giunta al Parlamento Europeo e Italiano) contro la gestione del centro di accoglienza e identificazione dell’isola, affinché possano immediatamente cessare le violazioni dei diritti umani perpetrate contro la popolazione minorile non accompagnata che vive nel campo. «Crediamo che nessun bambino possa essere privato del diritto di ricevere un’educazione e un’istruzione di qualità, soprattutto, se non può permetterselo — sottolinea Govoni —. Per questo stiamo lanciando le prime scuole internazionali al mondo per minori, siano essi profughi, svantaggiati o dimenticati. Il modello prevede un percorso pensato per 150 studenti, di cui il 70 per cento profughi e il 30 bambini delle comunità locali in difficoltà: tutti accederanno a un’istruzione di alto livello, totalmente gratuita». Alla fine di un percorso formativo della durata di 7 anni, gli studenti riceveranno un diploma riconosciuto in tutto il mondo.

Nel marzo 2020, a Gaziantep (Turchia), Still I Rise ha inaugurato Beraber, un centro educativo per adolescenti rifugiati dai 10 ai 17 anni e, da tabella di marcia, entro i primi mesi del 2021 Beraber diventerà la prima scuola internazionale. In Kenya, poi, dei 495.000 profughi, oltre il 53 per cento sono minori: qui sono già aperti i cantieri per la costruzione della seconda scuola internazionale, rivolta, anche in questa regione, ai piccoli profughi, come ai cittadini kenioti, convinti che solo un’istruzione di alta qualità sia in grado di gettare le premesse per un corretto percorso di crescita. La strada è lunga, ma la missione ha gambe per camminare: prossima tappa è esportare il progetto delle scuole internazionali su scala globale, a cominciare dal Sud America e dall’Italia.

di Silvia Camisasca