«Non è un paese per laici» di Vittorio V. Alberti

Una società molto poco liquida

Particolare dalla copertina del libro edito da Bollati Boringhieri
17 novembre 2020

Di recente, Papa Francesco, nella lettera indirizzata al cardinale segretario di Stato Pietro Parolin in occasione di un triplice anniversario (il quarantesimo della Comece e il cinquantesimo delle relazioni diplomatiche Santa Sede–Ue e della presenza della Santa Sede come Osservatore Permanente al Consiglio d’Europa), ha confidato di sognare un’Europa «sanamente laica». Nell’enciclica Fratelli tutti il Pontefice ha esortato ad «andare oltre un mondo di soci», in aperta controtendenza con quanto invece accade, anche nella Chiesa. Socius è etimologicamente “colui che segue”, non la verità, in umile atteggiamento di ricerca, bensì la curva direttrice di un gruppo di utilità. Socio appare così non solo come degradazione dei termini amico o prossimo, ma anche del termine laico, se a esso s’attribuisce il suo significato autentico. Nel corso dell’udienza generale dell’11 agosto 1971, già Paolo vi chiarì tale significato: «Laico per la Chiesa è un membro vivo ed operante» laddove il socio — aggiungiamo noi — è invece un corpo morto, che si fa portare ovunque e modellare dagli interessi in cui è coinvolto.

Questa premessa spiega perché Non è un paese per laici. Onestà intellettuale e politica per l’Italia della crisi di Vittorio V. Alberti (Milano, Bollati Boringhieri, 2020, pagine 144, euro 12) ci sia molto piaciuto. L’autore, filosofo e membro del consiglio scientifico del Cortile dei gentili, ha finalmente liberato la parola laico dalla gabbia semantica che la voleva equivalente ai termini profano (si veda il verso oraziano Odi profanum vulnus et arceo), secolare, areligioso o peggio, come oggi si dice, di laicista, antireligioso e anticlericale. Nessuno di questi significati “comuni” viene, però, evaso con incuria e nemmeno sbrigato con leggerezza: vi sono specifici paragrafi in cui si affrontano i conflitti e le incomprensioni tra fede e politica, credenti e non credenti, fede e ragione, Chiesa e Stato.

In queste pagine non si fa sconto anche alla nostra istituzione, ma ne siamo grati. Le riflessioni su certi «bigottismi» dei nostri apparati sono condotte con una durezza che non possiamo non condividere; ci impensieriscono con argomenti sensati, ci pungolano con sincero buonsenso, proprio perché condotte laicamente, vale a dire senza pregiudizi e senza eccezioni: il conformismo intellettuale che portò quasi 800 intellettuali italiani a firmare un appello contro Luigi Calabresi è trattato perfino con più durezza. La sinistra è richiamata a un’intima rielaborazione della sua identità culturale. Il laicismo è disapprovato almeno quanto il clericalismo: «Si può guardare la laicità con laicità? Si deve, e ora più che mai (…) non fare l’idolo di una cosa non significa che tutto è relativo, perché se tutto è relativo, si fa l’idolo anche del relativo».

Stimolante il riferimento all’ultimo affresco di Michelangelo, presente nella cappella privata dei pontefici (la Paolina), in cui si vede Pietro crocifisso a testa in giù che fissa, duro, l’osservatore. Quell’osservatore è quasi sempre il Papa, cui il primo Pontefice sembra dire: «Ti ho preceduto e sono finito assassinato. Ero papa, ma non sono un re, il re è Cristo». L’affresco, infatti, è sulla parete destra della Paolina, mentre al centro della prospettiva rimane il Crocifisso. Non soltanto il Papa regnante, ma la Chiesa tutta è sotto lo sguardo incombente di Pietro. Adriana Zarri diceva che la Chiesa non è soltanto «nostra Madre», ma è anche «nostra Figlia»; non è soltanto «Maestra», ma anche «Allieva», raccolto delle nostre scelte, del nostro discernimento. Necessario è che tale discernimento sia sanamente laico, vale a dire basato sul ragionamento e sulla libertà. Il saggio di Alberti mette a fuoco un punto di vista sulla laicità che si muove in tal senso, che ne estende i confini al gran bisogno del libero pensiero, laddove oggi dilaga la faziosità, la retorica al ribasso, operante non tanto sui sentimenti (impegnativi almeno quanto i ragionamenti), quanto sulle pulsioni e le emozioni.

Si fa strada l’inconfessabile o inconsapevole convinzione che il ragionamento non serva più a niente. «Se non ragiono e non ho istruzione — scrive Alberti — o anche se mi illudo di ragionare e sapere le cose, presto o tardi mi farò guidare da qualcuno che, con parole semplici (slogan?), mi guiderà come un agnellino al guinzaglio».

Nelle sue valutazioni, la società attuale è molto meno liquida di quanto sostenuto da Zygmunt Bauman: rigida, metallica molto più di quanto si possa credere, le sue tendenze dominanti ci conducono come pecore verso il recinto del conformismo, che non è soltanto adeguamento a superficiali modelli di costume, ma anche il capriccioso scetticismo della volontà, la sfiducia di cui Sciascia parlava ne La Sicilia come metafora (1979). Abbiamo smesso di confidare nelle idee, abbiamo smesso di credere che il mondo possa cambiare. La sfiducia è diventata la nostra dormeuse, comoda, morbida, funzionale alla molle pigrizia dei nostri tempi. Alberti anatomizza con incisioni estremamente precise la sostanza di questi tempi: «Mediocrità, smisurato conformismo, corruzione del linguaggio e addirittura dell’animo». La Santa inquisizione, scrive «si presenta in diversi modi: quella dell’impero delle mode e della comunicazione, che livella tutto; quella di chi fa il portabandiera del libero pensiero e che invece innalza barriere ideologiche; quella di chi esalta la quantità sulla qualità, salvo proporsi come alfiere dell’eccellenza italiana, altra espressione-chiave, standard, figlia della nostra comunicazione (…); quella di chi ripete liturgie religiose come fossero pratiche burocratiche (…); quella di chi fa della demagogia conflittuale la ragione primaria della politica». Della laicità auspicata da Alberti, che è coerenza, coraggio, onestà intellettuale, abbiamo tutti bisogno, noi per primi, quoi qu’on en dise.

di Roberto Rosano