Le ripercussioni del conflitto nel Tigray

Etiopia, ultima frontiera

(FILES) In this file photo taken on November 10, 2020, Amhara militia men, that combat alongside ...
17 novembre 2020

La crisi militare che ha investito in queste settimane la regione del Tigray, nell’Etiopia settentrionale, con evidenti ripercussioni anche nella confinante Eritrea, è preoccupante. Tre missili a lunga gittata lanciati sabato sera dal Fronte di liberazione del Tigrè (Tplf) si sono abbattuti sulla città di Asmara, confermando il timore, già espresso in questi giorni da molti analisti, di un’estensione regionale del conflitto. Una crisi che purtroppo rappresenta la cartina al tornasole delle tensioni, più o meno latenti, tra il potere centrale e le spinte regionaliste che assillano anche altri paesi dell’Africa sub sahariana. È importante tenere pressioni che le pressioni identitarie non costituiscono una peculiarità africana. Quanto sta avvenendo nel Corno d’Africa, infatti, è la riproposizione di quanto già avvenuto, ad esempio, in Europa sui Balcani all’inizio degli anni Novanta. Può infatti accadere che vi siano dei popoli che intendono rivendicare la propria autonomia anche a costo di scatenare una guerra civile. Ma per comprendere la fenomenologia del conflitto che insanguina il Tigray è necessario tornare indietro con la moviola del tempo.

Quando Abiy Ahmed divenne primo ministro in Etiopia, il 2 aprile 2018, la sua nomina scatenò l’entusiasmo della comunità Oromo, di cui egli fa parte e che rappresenta l’etnia maggioritaria nel paese. Senza dubbio le sue prime decisioni riscossero notevoli consensi, a partire dalla liberazione di migliaia di prigionieri politici, per non parlare della cancellazione del divieto di creare nuovi partiti. Inoltre, il disgelo nelle relazioni diplomatiche con la vicina Eritrea lo portò alla ribalta sul palcoscenico internazionale. L’assegnazione del Premio Nobel per la pace, nell’ottobre del 2019, rappresentò il vertice del successo che gradualmente s’incrinò per la sua determinazione a porre l’accento sull’importanza di un’unità nazionale che superasse le pregiudiziali etniche e dunque le istanze regionali. Il governo centrale, con il passare del tempo, si è trovato alle prese con un calo di popolarità per la graduale e costante pressione imposta dalle forti pressioni centrifughe dei vari gruppi etnici. Ecco che allora addirittura alcune componenti della cosiddetta Oromia hanno iniziato prendere le distanze dall’esecutivo di Addis Abeba. La decisione poi di rinviare le elezioni parlamentari a causa del covid-19 hanno acuito le tensioni, particolarmente nel nord del paese. Sfidato dall’élite secessionista tigrina, che per anni ha dominato la scena politica nazionale, Abiy è stato costretto a subirne l’affronto. Infatti, il Tplf ha deciso di contravvenire alla decisione governativa di posporre il voto, organizzando elezioni regionali a settembre. L’offensiva militare in corso contro il Tplf, che considera il premier Abiy un leader illegittimo, è la risultante della linea politica del premier che, utilizzando il pugno di ferro, vorrebbe scoraggiare chiunque aspiri a seguire l’esempio del Tigray.

È evidente che dietro le quinte si celano i rancori della leadership tigrina che non ha condiviso, nel 2018, la scelta del premier di sciogliere il Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (Eprdf) che per vent’anni aveva dominato incontrastato la scena politica del paese, fondando il Prosperity Party, a cui il Tplf si è rifiutato di aderire. La goccia che, per così dire, ha fatto traboccare il vaso, stando all’esecutivo di Addis Abeba è stato il recente attacco delle forze tigrine a una base federale attribuito al Tplf. L’aggressione sarebbe stata la più grave di una serie di provocazioni, secondo le accuse del governo di Abiy, a poche settimane di distanza dallo scoppio del vero casus belli: le elezioni regionali di settembre. Mentre scriviamo, è difficile avere un quadro reale di quanto sta realmente avvenendo sul campo, ma fonti indipendenti parlano di diverse decine di migliaia di profughi che hanno cercato riparo in territorio sudanese e di violenti scontri armati lungo il confine con l’Eritrea e il Sudan. La preoccupazione della diplomazia africana è naturalmente rivolta non solo a quanto sta avvenendo nel Tigray, ma anche alle possibili ripercussioni del conflitto nella vasta regione del Corno d’Africa. Da rilevare che il governo di Asmara considera Tplf, il principale ostacolo alla normalizzazione delle relazioni politiche con Addis Abeba, mentre il Sudan e l’Egitto, avendo in sospeso il contenzioso sul progetto di riempimento dell’invaso della Grande diga del rinascimento etiopico (Gerd), restano spettatori interessati rispetto a quelli che possono essere i possibili esiti della crisi armata tigrina. Per il momento sono caduti nel vuoto gli appelli dell’Unione africana (Ua) per una sospensione dei combattimenti, come anche quello al dialogo rivolto dal Santo Padre lo scorso 8 novembre in occasione della preghiera dell’Angelus.

Oggi la Repubblica Federale Etiope, erede di un millenario impero, è un puzzle di popoli e religioni in cui spesso emergono, come abbiamo già visto, perniciose tensioni. Ma a pensarci bene, la stessa parcellizzazione, con modalità e tratti fisiognomici diversi, è presente in altre aree geografiche del continente. A parte la Somalia, che continua ad essere ostaggio di formazioni estremiste di matrice islamista capaci di spadroneggiare impunemente — dando peraltro filo da torcere al governo, internazionalmente riconosciuto, di Mogadiscio, ma soprattutto seminando morte e distruzione — vi sono altri scenari infuocati nell’Africa sub sahariana. Basti pensare al Sud Sudan dove la frammentazione del territorio è ancora oggi causata dalla presenza di formazioni ribelli che obtorto collo accettano di essere realmente ossequiose nei confronti di un potere centrale. La stessa Repubblica Centrafricana, nonostante gli sforzi profusi in sede internazionale, è sottoposta alle interferenze di gruppi armati che, pur avendo assunto una connotazione politica, affermano nei fatti il diritto ad un’autonomia insofferente ai controlli dell’amministrazione centrale dello Stato. Per non parlare del settore orientale della Repubblica Democratica del Congo dove lo strapotere delle milizie armate che infestano le zone rurali indebolisce l’affermazione dello stato di diritto nei confronti della popolazione civile. Ed è proprio nella realtà africana, dove la multietnicità e la multiculturalità sono la norma, che è necessario trovare forme nuove di statualità che superino la logica del «confine» e della «sovranità armata», andando al di là dell’apparente dicotomia tra autodeterminazione e società multietnica/multiculturale. Motivo per cui il confronto, espresso nella forma negoziale, risulta essere, l’unica via da percorrere, coinvolgendo in primis l’Ua. Parafrasando l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario per i rapporti con gli Stati della Santa Sede, occorre esercitare con determinazione «l’arte del dialogo, dell’incontro, del trovare soluzioni insieme a problemi comuni. È questo il tipo di diplomazia che il Papa vuole».

di Giulio Albanese