Roberto Rossellini nel ricordo del figlio Renzo

Cantore dell’epica di un’era antiepica

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14 novembre 2020

«Tutto quello che sono, tutto quello che so, lo devo a mio padre»: non poteva essere più aperto e perentorio Renzo Rossellini nel tributare un omaggio grondante devozione e gratitudine al papà Roberto, tra i registi più geniali e innovativi del Novecento italiano considerato, con giudizio unanime, il padre del neorealismo cinematografico. Tale omaggio è contenuto nel libro di Gabriella Izzi Benedetti Oltre il Neorealismo. Arte e vita di Roberto Rossellini in un dialogo con il figlio Renzo (Firenze, Mauro Pagliai Editore, 2020, pagine 250, euro 12). Un dialogo intessuto di riflessioni illuminanti volte a penetrare anche negli aspetti meno conosciuti di «un regista mai dimenticato». Presidente della Società Vastese di Storia Patrese Luigi Marchesani e membro del comitato scientifico del Centro Unesco di Firenze, l’autrice sottolinea come Rossellini sia un personaggio rimasto «nel cuore di tutti». Ha elaborato — ricorda — «un nuovo linguaggio cinematografico, ha qualificato la stagione neorealista, superandola ma anche acquisendola come base espressiva non contrattabile sul piano etico». E, fattore importante, la sua narrazione ha evitato di cedere a ovvietà che l’espressione realista può produrre. Non a caso il regista austriaco Otto Preminger diceva: «Il cinema si divide in due ere: una prima e una dopo Roma città aperta».

«Rossellini — evidenzia Izzi Benedetti — è stato il primo a trasformare il clima di una ritrovata libertà in un racconto dove la tensione antifascista raggiunge una formula alta e completa. Roma città aperta è un film scritto girato sotto la spinta di un’adesione interiore totale e che diviene una delle migliori espressioni rivoluzionarie del film come arte». Alla stessa stregua si colloca Paisà, realizzato con maggiore distacco emotivo: la pellicola si configura quale testimonianza civile ricca di un senso poetico che, come in Roma città aperta, unisce storia ed emozione. «Rossellini — scrive l’autrice — ha avuto la percettibilità massima nell’assorbire il clima di tragedia e di riscossa, divenendo una sorta di “cantore” dell’epica di un tempo antiepico”. In lui niente risulta mediocre, anche quando si addentra nella mediocrità, poiché «qualunque situazione proposta è filtrata attraverso una verifica culturale, un ritmo, un’armonia e il rifiuto di sentimentalismi».

«Mio padre — ricorda Renzo — sapeva essere divertente, aveva senso dell’umorismo, che lo aiutava a sopravvivere nel mondo complesso e difficile della cinematografia». Vedeva il cinema come “un microscopio” che riesce a offrire allo spettatore le pieghe più segrete dell’essere umano e dell’ambiente che lo circonda. «Ciò che oggi può sembrare prassi acquisita, in quel tempo era una novità assoluta», tiene a precisare Renzo, che non ricorda di aver mai visto il padre partecipare a una retrospettiva dei suoi film neorealisti. Roberto diceva: «Nel 1945, quando con Sergio Amidei ci siamo messi a scrivere il progetto di Roma città aperta, appena usciti dalla seconda guerra mondiale e da una guerra civile, ci sentivamo come due sartine che dovevano rammendare un’Italia tutta lacerata e strappata. Anche decidere di mettere come protagonisti e martiri un partigiano e un parroco significava mostrare al mondo che l’Italia non era stata solo fascista e pro-nazista, ma che l’antifascismo era stato trasversale nell’anima popolare italiana, anche nei bambini e nelle donne».

Significative le affermazioni di Renzo riguardo al sentimento religioso di Roberto: «Mio padre — rileva — non era credente, ma avrebbe voluto esserlo. Riteneva la fede un dono dal qual era stato escluso. Criticava altri contesti, la grande ricchezza di alcuni, l’ingiustizia sociale, ma aveva stima di chi aveva fede». È accaduto che i suoi film non siano stati compresi. In seguito buona parte della critica ha fatto mea culpa. È indicativa, in merito, la valutazione data dal regista a proposito del caso legato al film Stromboli. «Il boicottaggio effettuato contro il mio film penso sia dovuto innanzitutto ad un’assoluta incomprensione di ciò che esso significa e del linguaggio cinematografico con cui le mie idee sono state espresse». Stromboli — evidenzia l’autrice — è una proposta molto interiorizzata, e racconta la lotta impari contro la solitudine senza speranza, dovuta alla stupidità degli uomini e alla ostilità della natura. La pellicola presenta un Dio che la protagonista si ostina a ignorare e che accetterà, o meglio in cui cercherà di rifugiarsi al culmine della disperazione. Così impostato non fu facile accettare il film, «ma a molti piacque», osserva Izzi Benedetti.

Nel testo Quasi un’autobiografia, il regista, in un’intervista del 1977, pochi mesi prima della sua morte, formula riflessioni amare sulla aspettative disattese ma, al contempo, avanza proposte lungimiranti. A proposito della televisione, afferma: «Per la prima volta nella storia dell’uomo possediamo un mezzo di comunicazione universale e immediato. E cosa ne abbiamo fatto? Una specie di gioco da circo che corrompe tutto e tutti. Alla televisione gli uomini politici non comunicano: recitano, trasformati da attori». Roberto Rossellini auspica dunque che i mezzi di comunicazione di massa contribuiscano a un cambiamento culturale che passi, necessariamente, attraverso la promozione dei valori etici e della dimensione morale. «Purtroppo — denuncia il regista — finora i mezzi di comunicazione di massa non sono stati impiegati a questo scopo. Al contrario, sono stati utilizzati per fare dell’opinione pubblica una banchisa interamente pietrificata».

di Gabriele Nicolò