I «fuoriclasse della sconfitta» portati in scena da Andrea Muzzi

All’alba perderò

Andrea Muzzi
14 novembre 2020

Un Guinness dei primati al contrario, un’epopea tutta da ridere, fatta di storie vere trasformate in figurine Panini di fuoriclasse della sconfitta; è un piccolo gioiello All’alba perderò, lo spettacolo teatrale scritto da Andrea Muzzi e Marco Vicari che presto diventerà anche un film. «Che cosa ha spinto il pugile Eric Crumble a salire sul ring trentuno volte e a subire trentuno ko di fila? — si legge nelle note di regia — E perché il samoano Trevor Misapeka, centotrenta chili di pesantezza, ha accettato di correre contro la sua volontà (e la sua stazza) i cento metri alle Olimpiadi del 2001?». C’è un motivo per questa scelta illogica, ovviamente, ma un testo teatrale così frizzante non si merita spoiler guastafeste. L’elenco dei noti loro malgrado e degli antieroi a cui l’insuccesso ha dato alla testa, come diceva Flaiano, è lungo: l’attore toscano, cresciuto alla scuola del “Giancattivo” Alessandro Benvenuti, attinge a piene mani dalle cronache sportive e dal recente passato della musica leggera.

«Perché il giovane bassista Stuart Sutcliffe — infierisce il comico con candida crudeltà — ha abbandonato dopo soli due anni un complessino di Liverpool che riteneva senza futuro (dal nome strano e anche piuttosto ripugnante di Scarafaggi)? E perché Giancarlo Alessandrelli, portiere di riserva della Juventus negli anni Settanta, dopo dieci anni di onorata panchina, scende finalmente in campo e in soli venti minuti riesce a prendere tre gol?».

Grazie a una comicità surreale, che punta a far ridere con le capriole del pensiero, evitando la battuta facile, davanti agli occhi degli spettatori prende vita una galleria di perdenti illustri che hanno fatto la storia. Anche perché in fondo, lo stesso successo non è altro che «l’abilità di passare da un fallimento a un altro senza perdere l’entusiasmo» (Winston Churchill dixit).

Uno spettacolo molto più anticonformista di quello che sembra, All’alba perderò, capace di rovistare con allegria e leggerezza negli scantinati più bui dell’ultimo, vero, innominabile tabù della società occidentale, il fallimento. Portando l’esempio paradossale di chi è sempre stato maglia nera in classifica, è un inno alla vita, a chi non ha mai smesso di provarci, a quelli che non si sono mai arresi. Perché il segreto della vittoria è, prima di tutto, accettare la propria paura di perdere e saperla gestire. Questo vale per gli attori («per fare il nostro lavoro — ama ripete Muzzi — il minimo sindacale è il coraggio») ma vale anche per chiunque accetti di esporsi al giudizio degli altri, qualsiasi cosa faccia, a qualunque età.

Non a caso, in una fase precoce della gestazione del testo, al titolo pucciniano, parodia del Nessun dorma, seguiva «Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore» verso tratto dalla struggente La leva calcistica della classe ‘68 di Francesco De Gregori. «Chi passa per il laboratorio della sconfitta tocca la carne viva della realtà, diventa più attento», scriveva qualche giorno fa sul nostro giornale Alessandro Rivali, in un articolo dedicato alla poesia di Adam Zagajewski: «Davvero sappiamo vivere solo dopo la sconfitta, / le amicizie si fanno più profonde, / l’amore solleva attento il capo. / Perfino le cose diventano pure». Non distogliere lo sguardo dai nostri errori e fallimenti ci aiuta a essere più umani. In questo senso non suona affatto ironica la celeberrima battuta di Andrè Agassi «a chi mi chiede se mi dispiace di aver battuto il mio avversario in quel modo rispondo: non priverei mai nessuno dell’esperienza istruttiva di perdere».

di Silvia Guidi