La storia di Julia Greeley, da schiava a grande testimone di carità cristiana

Trasformò il dolore in un canto a Dio

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11 novembre 2020

Nella misera baracca, la bimba malata invocava la mamma con la vocina stanca. La donna, troppo povera per chiamare un medico, cercava di darle almeno il conforto della sua presenza, accarezzandola con tenerezza e ponendole pezzuole bagnate sulla fronte, nel tentativo di abbassare la febbre. La madre si sentiva il cuore colmo d’angoscia per la salute della piccina e anche perché sapeva di rischiare l’ira del sorvegliante. Nella piantagione stavano raccogliendo il cotone, ma lei era corsa al capezzale della figlia, trascurando per un momento il lavoro. D’un tratto, la porta si spalancò con violenza e un omaccio si precipitò nella stamberga, vomitando insulti. Si buttò sulla donna e prese a frustarla senza pietà. Mentre Cerilda cadeva a terra sotto la furia dei colpi e larghi squarci insanguinati si aprivano sul suo corpo, sua figlia, con i grandi occhi innocenti sbarrati e pieni di terrore, singhiozzava in modo sempre più convulso. Con gesto imprevedibile, l’aguzzino colpì la bambina sul visetto con una scudisciata, distruggendole per sempre un occhio.

Questo episodio di brutalità segnò Julia Greeley con le stigmate del dolore. Il suo volto rimase sfigurato; l’occhio, divenuto cieco, continuò a perdere siero, facendola patire per tutta la vita. Ma il Signore l’aiutò a trasformare la sofferenza in canto e ad essere una persona luminosa, col cuore pieno d’amore, umile e semplice, che trovò costantemente pace e gioia nell’aiutare le persone ancora più povere di lei. Nel 2016 l’arcivescovo di Denver, monsignor Samuel Joseph Aquila, ha aperto la sua causa di canonizzazione. Quest’anno in America, presso Liguori Publications, è uscito il libro An hour with Julia Greeley (“Un’ora con Julia Greeley”), del padre francescano Blaine Burkey, autore inoltre di un libro più corposo, In secret service of the Sacred Heart. The life and virtues of Julia Greeley (“Nel servizio nascosto del Sacro Cuore. La vita e le virtù di Julia Greeley”).

Non conosciamo con esattezza l’anno di nascita della piccola Julia che comunque va collocato tra il 1833 e il 1848. È noto il nome dei suoi due genitori, George e Cerilda, che erano schiavi ad Hannibal, città del Missouri in cui visse anche lo scrittore Mark Twain, proprio nello stesso periodo (dal 1839 al 1853). In base alle leggi schiaviste dell’epoca, i neri non avevano il diritto di sposarsi. Per quanto riguarda il cognome, a volte assumevano quello di un ex proprietario o qualche altro nome noto, ma nei registri delle persone censite ad Hannibal nel 1850 non risulta esserci alcun Greeley. Forse il cognome di Julia venne ispirato da quello, molto conosciuto, del direttore riformatore del «New York Daily Tribune», Horace Greeley, famoso antischiavista. Da un articolo pubblicato sul «Denver Post» del 4 gennaio 1913, e ristampato su «Lil’Red Wagon», il periodico che ora sostiene la canonizzazione di Julia, emerge qualche altro particolare. Un giornalista rimasto anonimo raccolse per la cronaca locale alcune informazioni dalla stessa Greeley, cinque anni prima della sua morte. Ella ricordava di essere nata «nella piantagione di Samuel Carwell, che allora era una delle più grandi del Missouri. Da bambina fu venduta al generale Bernard Pratt di St Louis. Ella non seppe mai cosa accadde a suo padre e suo madre, che erano molto vecchi quando lei fu tolta a loro». Forse non erano così anziani, ma solo ingrigiti dal dolore nel vedersi strappare la figlia, una bambina con un occhio cieco e dolente, dopo il tragico episodio successo ad Hannibal.

Alla fine della guerra civile, Julia venne liberata. Non più come schiava, ma come donna libera, si sostenne lavorando presso diverse famiglie, come cuoca, bambinaia, lavando i pavimenti. Per lei l’incontro più importante di tutta la sua vita fu proprio quello con una datrice di lavoro, Julia Pratte Dickerson, fervente cattolica, che le fece il dono più grande, quello di comunicarle la propria fede. Julia Pratte Dickerson sposò William Gilpin. Quando il marito fu nominato governatore del Colorado, la coppia lasciò St Louis e si trasferì a Denver. Anche Julia Greeley si trasferì a Denver, dopo essersi assicurata che la signora Gilpin l’avrebbe assunta. E così lavorò per i Gilpin dal 1879 al 1883, nutrendo sempre molta riconoscenza e affetto per la signora Gilpin. Nel 1880, a Denver, nella chiesa del Sacro Cuore, Julia fu battezzata sotto condizione perché i padri gesuiti che reggevano la parrocchia non potevano sapere se lei fosse già stata battezzata precedentemente. Fu l’inizio di un cammino generoso nelle vie del Signore, vissuto con tanta semplicità e umiltà. Nel 1901 entrò a far parte del Terzo ordine regolare di San Francesco. Julia partecipava ogni giorno all’eucarestia e aveva un grande amore per il Sacro Cuore, per la Vergine Maria e per tutte le persone con cui veniva in contatto. Nelle case in cui lavorava, era dolce come una mamma. Non ebbe mai delle paghe elevate, ma per sé tratteneva solo l’indispensabile e dava tutto il resto a chi era più povero di lei. Andava nei quartieri più miseri della città, pieni di immigrati giunti da varie parti d’Europa, anche dall’Italia, per rendersi conto delle necessità delle persone e dare una mano. Si recava poi dalle famiglie benestanti e chiedeva elemosine per i suoi protetti. Dai poliziotti e dai pompieri ricevette varie offerte. Ricambiava con le sue preghiere e con riviste sul Sacro Cuore che ogni mese, puntualmente, consegnava, girando a piedi tutta la città. Lei che da giovane era stata una schiava disprezzata, coperta di stracci, organizzava piccole feste da ballo per le ragazzine povere, dopo aver loro distribuito vestitini eleganti ottenuti in regalo da fanciulle benestanti. Insegnava così alle figlie dei ricchi la gioia della condivisione.

Piena di delicatezza, portava di notte il suo aiuto ai bianchi nel bisogno, perché nessuno vedesse ed essi non dovessero vergognarsi di accettare l’aiuto da una nera. Uscire da sola mentre la gente dormiva, in una città in cui il Ku Klux Klan era ben presente, comportava certo dei rischi, ma Julia non temeva per sé stessa e metteva la carità al primo posto. Su un carretto rosso caricava carbone, viveri, coperte, cibo, abiti e usciva con ogni tempo. «È la mia gioia», diceva. Una notte i pompieri la videro mentre trascinava da sola sulla schiena un materasso. Non doveva essere facile per lei addossarsi queste fatiche. Aveva le mani, i piedi e la schiena pieni di artriti dolorose, come si è scoperto recentemente alla riesumazione dei suoi resti. Ma i testimoni ricordano che sorrideva sempre, con una dolcezza che le illuminava il viso. Per i bambini aveva una particolare tenerezza: con loro giocava, cantava e rideva per le strade. Era felice di portarli a divertirsi nei parchi e diceva: «Questi sono i miei bambini». Amata da cattolici e non cattolici, fu chiamata “l’angelo di Denver”. Tuttavia, per tutta la vita, e a volte perfino in ambiti ecclesiali, incontrò pregiudizi e ostilità nate dal razzismo, ma, come scrive padre Burkey, «qualsiasi cattiveria le fosse scagliata contro, Julia tenne l’unico occhio valido fisso al suo Amato inchiodato alla croce e scelse di seguire il suo esempio nel non reagire, condividendo il suo amore con tutti. Così in un mondo in cui abbonda ancora così tanto vetriolo razziale, Julia offre a tutti un luminoso esempio di rispetto della dignità di tutti i nostri fratelli e sorelle».

Julia Greeley spirò a Denver il 7 giugno 1918, proprio nel giorno in cui si celebrava la festa del Sacro Cuore, che lei tanto aveva amato. Una folla numerosa partecipò ai funerali, per dare l’ultimo saluto all’umile donna che aveva dato a tutti la lezione più importante: quella della bontà.

di Donatella Coalova