Fra i monasteri siro-ortodossi del Tur Abdin

Ciò che è stato e ciò che è ancora

Il monastero di Mor Hananyo nella regione di Tur Abdin
11 novembre 2020

Hasankeyf è un nome da associare a quelli di Aghia Sophia e di San Salvatore in Chora perché, in parte, ne ha condiviso le sorti. Nelle due ex chiese di Istanbul si sentirà solo la voce dell’iman dall’alto del suo minbar; ad Hasankeyf, una città con dodicimila anni di storia, regnerà il silenzio dei pesci che nuotano nelle acque del Tigri che riempiono la diga di Ilisu, alle porte della Mesopotamia. Scomparsi i luoghi, scompariranno, Dio non voglia, anche i cristiani? Cifre ufficiali attestano che nell’Anatolia essi sono più o meno venticinquemila, lo 0,2 per cento della popolazione, mentre qualche tempo fa toccava il 20,22 per cento. Il vicariato apostolico di Anatolia ha sì e no millecinquecento battezzati distribuiti in una decina di parrocchie, dislocate soprattutto nel sud della Turchia: Adana, Mersin, Iskenderun, Antakia.

Altra presenza numericamente insignificante, ma storicamente significativa, è quella dei siro-ortodossi sparsi nell’area di Tur Abdin — la montagna degli adoratori di Dio, una specie di Monte Athos del monofisismo siriano — attorno a monasteri del iv, v secolo dove la lingua liturgica è il siriaco di Edessa, molto simile alla lingua parlata in Palestina ai tempi di Gesù. I monasteri sono quelli di Mor Gabriel, il più antico e sede del metropolita di Tur Abdin, e Mor Hananyo (conosciuto più come Dayr al-Zafran per il colore giallo delle sue mura), sede del patriarcato ortodosso sino al 1932, poi trasferito a Damasco. Mor Gabriel è stato al centro di un’aspra contesa legale da quando, nel 2008, tre villaggi vicini rivendicarono un vasto appezzamento di terreno da sempre appartenuto ai monaci. Fu aperta una causa alla quale se ne aggiunsero altre; i monaci vennero accusati di occupazione illegale, di proselitismo e addirittura di aver costruito il monastero sul terreno in cui sorgeva una moschea, quando tutti sanno che la costruzione è stata fatta 173 anni prima della nascita di Maometto. La Corte europea ha riconosciuto i diritti dei monaci e un piccolo, lento “miracolo” sta accadendo: con il “ritorno” della terra stanno tornando anche i cristiani siro-ortodossi che non hanno mai dimenticato le colline che chiamano “i luoghi dell’anima”.

Sui dorsali di queste terre, benedette dalle preghiere dei monaci, si gioca oggi la sopravvivenza dei cristiani dell’Anatolia e dei profughi arrivati dall’Iraq, dalla Siria, dall’Afghanistan e dal Pakistan che vivono in condizioni angosciose: non possono emigrare in Occidente e non possono tornare nei vecchi luoghi dove troverebbero le situazioni che li hanno costretti a fuggire.

Con il ritorno degli emigrati la campana di Mor Gabriel ha ripreso a suonare, ricordando che la convivenza di popoli e fedi, nella dura e magnifica Anatolia, non è stata cancellata. Continua ancora.

Sabino Chialà, monaco di Bose, che ha percorso più volte in lungo e in largo quei luoghi, ha detto che le comunità dei cristiani continuano a vivere su una terra che sentono profondamente legata alla loro storia. A Midyat, cittadina nel cuore della regione di Tur Abdin, restano varie famiglie di cristiani e una colonna all’ingresso della città antica si dice fiera di considerarla luogo di convivenza pacifica di musulmani, cristiani e yezidi. Dove non ci sono più cristiani, come a Kfarbe, custode della bellissima chiesa del vi secolo è una famiglia curda che guida il visitatore in un edificio che sente suo. Si considerano figli legittimi di questa terra e avvertono la responsabilità di preservare la memoria di quello che è stato e soprattutto di quello che è ancora.

Sono normalissimi uomini e donne che tentano di vivere in modo regolare la loro fede, senza alcun eroismo. Nessuno può prevedere il futuro, ma su ciascuno incombe la responsabilità del presente. Per questo conservano gelosamente i loro monasteri anche se sono abitati da pochi monaci, come Mor Yaqub di Salah, sorto accanto a un tempio pagano di cui i monaci stanno portando alla luce importanti vestigia; come Mor Malke, nel cuore del monte Izla, non lontano da quello che si considera tradizionalmente il monastero più antico della regione, Mor Awgin. Si tratta del monastero forse più minacciato dall’instabilità politica che a volte si fa sentire in questa zona a ridosso del confine, e i monaci non nascondono una certa apprensione. Eppure guardano avanti e continuano a piantare alberi nel loro giardino fino a quando sarà loro possibile farlo. C’è in questi monaci un intenso desiderio di non essere dimenticati, ma di sentirsi accompagnati. Indubbiamente avrebbero bisogno di molte cose, anche di aiuti materiali, ma ciò di cui hanno più bisogno è di essere ricordati, di essere visitati, di sapere di essere parte di un mondo più vasto di quell’oasi di bellezza e di fragilità in cui vivono. Si spera che le comunità cristiane possano rispondere a questo appello. Le possibilità sono molte: la visita fraterna di un gruppo, l’invio di aiuti materiali, la permanenza di qualcuno per alcuni giorni per condividere la loro vita. Una cosa è chiara: deve essere qualcosa di diverso dal soccorrere chi ha bisogno di aiuto; deve essere piuttosto l’instaurare un’alleanza, il coltivare un’amicizia.

di Egidio Picucci