Una novità di metodo

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09 novembre 2020

Dopo Laudato si’, anche Fratelli tutti è posta sotto il patronato di Francesco d’Assisi: scelta che dice molto di più di un doveroso omaggio al santo da cui Jorge Mario Bergoglio ha preso il nome come vescovo di Roma.

I due documenti riprendono alcuni dei tratti più peculiari del carisma del santo di Assisi: fraternamente partecipe della vita di ogni creatura e desideroso di abbracciare in Cristo ogni uomo, superando ogni barriera come nella sua singolare iniziativa di andare a incontrare il sultano in Egitto.

Di questo episodio il Papa sottolinea che «egli non faceva la guerra dialettica imponendo dottrine, ma comunicava l’amore di Dio» (n. 4) e in questo atteggiamento vede un esemplare contributo alla promozione di «fraternità e amicizia sociale».

Alla luce di questo rapido accenno è possibile mettere a fuoco un suggerimento di metodo che, nella sua novità, merita di essere preso in attenta considerazione.

La presa di distanza da una dialettica dottrinale si accorda con talune suggestioni, presenti soprattutto in Evangelii gaudium (Eg), a proposito delle relazioni Chiesa-mondo.

Francesco ha messo in discussione uno dei capisaldi della prassi ecclesiale “moderna” che da secoli ha riservato al magistero pontificio la prerogativa di qualunque intervento autorevole sul tema (Eg 16), dal momento che il centro della scena era occupato dalla dialettica tra due comprensioni della realtà compiute e totalizzante: quella cristiana e quella mondana, secolarizzata.

Un tale modo di procedere si è fondato per secoli sul paradigma secondo il quale la singolare competenza del Papa sulla “verità” (infallibilità) fosse l’insuperabile garante di un assetto della comunità ecclesiale adeguato a misurarsi con un mondo estraneo a essa, quando non dichiaratamente ostile, portatore di un’istanza di universalità altrettanto forte di quella del messaggio evangelico.

In Fratelli tutti si apprezza l’operatività di quanto Evangelii gaudium ha indicato: sarebbe fatica sprecata cercarvi uno status quaestionis dottrinale, premessa a una serie rigorosa di direttive pratiche da applicare per orientare l’agire dei cristiani nel tempo presente.

Si coglie la volontà di prendere atto delle mutazioni seguite alla crisi delle grandi narrazioni ideologiche dei secoli xix e xx: esse hanno messo in discussione molti dei profili più condivisi nella riflessione sulla presenza della Chiesa nel mondo.

La caduta del Muro di Berlino (9 novembre 1989) ha rappresentato una forte cesura della storia contemporanea: interpretata come evento conclusivo del cosiddetto secolo breve, essa parve a prima vista una grande opportunità per la Chiesa. Archiviata la stagione delle dure contrapposizioni ideologiche, ciascuno poteva mettersi in gioco senza preclusioni in un confronto e dialogo finalmente libero da pregiudizi. I frutti del primo decennio del pontificato di Giovanni Paolo ii hanno alimentare l’idea che l’identità cristiana potesse trovarsi in una posizione culturalmente di forza. La Chiesa appariva ormai l’unico soggetto di un “pensiero forte” nel desolante panorama del relativismo.

Le cose non sono andate esattamente così e un’indagine approfondita è ancora tutta da elaborare. Va comunque registrato che in ambito ecclesiale si è manifestato un certo consenso all’interpretazione del presente del mondo come «scontro di civiltà». Non pochi vi hanno ritrovato argomenti per legittimare un rinnovato protagonismo della Chiesa nel mondo: solo essa poteva fornire all’Occidente quei necessari modelli culturali senza dei quali esso sarebbe risultato sconfitto nello scontro con le altre civiltà.

Non si è prestata la dovuta attenzione agli esiti della frammentazione culturale, sociale, politica accaduta negli ultimi decenni: la censura relativista nei confronti della universalità dell’annuncio cristiano è stata ancora più radicale di quella espressa nel passato, ma esercitata inglobando ogni istanza identitaria in un panorama uniforme.

Per queste ragioni investire in profili identitari collabora — paradossalmente — a rendere organica la proposta ecclesiale proprio a quell’orizzonte globalizzato e relativista contro il quale essa intende rivolgersi.

Pertanto è legittimo elevare qualche perplessità sulla scelta di continuare sulla strada della proposta di un modello forte di uomo e di società, come risposta alla frammentazione culturale e sociale seguita alla fine del xx secolo.

Un differente percorso è offerto dal decentramento del paradigma dottrinale, eseguito proprio in Fratelli tutti.

L’impianto dell’enciclica, infatti, non mira a esporre compiutamente la dottrina sull’amore fraterno, ma piuttosto a coglierne la centralità nella nostra epoca: il suo tradimento è all’origini dei mali che affliggono la società, mentre investire su di esso resta sempre nella disponibilità di tutti.

Lo spazio universalmente condiviso in cui il Papa invita a convergere non è una comune razionalità naturale, dottrinalmente giustificata: l’odierna stagione della cultura occidentale è caratterizzata proprio dall’esplicito rifiuto di ogni criterio universale d’interpretazione dell’uomo e della realtà.

L’enciclica, invece, intende accompagnare gli uomini del nostro tempo a un’intelligenza dell’attuale temperie storica, mettendo in gioco come criterio di lettura un fattore costitutivo dell’esperienza: amare ed essere amati (n. 87).

Non si tratta di offrire un’analisi compiuta dei mali del mondo, ma di accompagnare gli uomini a misurarsi con le sfide drammatiche del presente, senza richiudersi nello sgomento di mali invincibili né vagheggiare improbabili scorciatoie utopistiche.

Si urge piuttosto a un dialogo costante e serrato con il livello originario dell’esperienza umana, aprendosi a tutti i possibili interlocutori: le religioni, le differenti culture e popoli, qualunque espressione ideale.

Procedere in questa direzione è l’esatto contrario di una messa tra parentesi della singolarità e novità dell’annuncio cristiano sulla fraternità e l’amore: proprio perché ne riconosce la sorgente nel suo Signore, «chiamata a incarnarsi in ogni situazione e presente attraverso i secoli in ogni luogo della terra — questo significa “cattolica” —, la Chiesa può comprendere, a partire dalla propria esperienza di grazia e di peccato, la bellezza dell’invito all’amore universale» (n. 278).

Per queste ragioni l’enciclica esprime la volontà di accompagnare i cristiani e tutti gli uomini nel rischio della propria libertà di fronte alle sfide del presente: non si tratta di applicare alla realtà un modello definito una volta per tutte, ma di procedere come “artigiani”, consapevoli della provvisorietà di ogni opera, ma certi che «quello che conta è avviare processi di incontro, processi che possano costruire un popolo capace di raccogliere le differenze» (n. 217).

In Francesco d’Assisi la volontà di apertura universale nasceva dal desiderio di una completa immedesimazione a Cristo: il suo carisma ha giocato un ruolo singolarissimo nella stagione ecclesiale in cui visse, segnata da un profondo “cambiamento d’epoca”.

Il nostro presente è segnato da una medesima fisionomia “epocale”: la lezione di Francesco appare quanto mai meritevole di essere ripresa con attenzione, soprattutto nel modo con cui il Papa la assume nel tracciare percorsi capaci di accompagnare la comunità ecclesiale a essere fattivamente presente nel tessuto del mondo contemporaneo, dando ragione della singolare pretesa universale dell’annuncio cristiano.

di Gilfredo Marengo
Vice-preside del Pontificio Istituto teologico Giovanni Paolo II
per le Scienze del matrimonio e della famiglia