# CantiereGiovani

Scorderemo i documentari ma ci ricorderemo i maestri

Robert Doisneau, «Les tabliers de Rivoli» (1978, particolare)
09 novembre 2020

L’arte di far crescere


«Insegnare non basta, Bisogna educare!»: è racchiuso in questa breve frase il significato del bel libro di Marco Erba, insegnante liceale e scrittore di narrativa per ragazzi, Insegnare non basta. Essere un maestro nella scuola di oggi (Milano, Vallardi, 2020, pagine 203, euro 14.90). Un volume agile, che ha proprio nel rapporto tra insegnamento ed educazione il suo perno: nessuna scuola, dice l’autore, può pensare di insegnare senza educare, o educare senza insegnare. Binomio inscindibile a cui ogni vero maestro deve guardare, nello squadernarsi dei suoi giorni in cattedra, perché, così facendo, si guarda al nodo del fare scuola, cioè la relazione: «Le nozioni non bastano. Il cuore è la relazione: quel rapporto umano che un insegnante, con tutti i suoi limiti personali e culturali, può creare con ogni suo allievo. Per questo dimentichiamo i documentari, così come negli anni dimentichiamo molte nozioni imparate a scuola, ma un insegnante vero, che ha toccato la nostra vita, lo portiamo dentro per sempre».

Un insegnante vero è un appassionato delle sue discipline, esigente, realista, curioso, un adulto che sa guardare volti e storie degli studenti che accompagna, sapendo che «in ogni ragazzo c’è un punto accessibile al bene» e che lì, da quel pertugio, può passare ciò che può fare la differenza. Coltivare questa speranza significa prendersi a cuore la vita dell’altro, significa scegliere un modo di spendere l’esistenza. È uno stile che Erba ha imparato alla sequela di don Bosco, essendo stato prima allievo e poi per molti anni docente nella scuola salesiana di Milano. A questi punti cardinali guarda il suo insegnare, il suo educare, il suo scrivere, come le pagine del volume dimostrano con concretezza e ironia, evitando trattazioni teoriche che poco hanno a che vedere con la vita in classe.

Il libro, non a caso, è una lunga lettera a Laura, una ex studentessa diventata a sua volta insegnante: una lettera scritta da chi ha qualche anno e qualche esperienza in più da condividere, ma che non ha mai smesso di imparare e osservare. Da qui nascono i ritratti dei docenti (dall’insegnante deus a quello pugile, da Narciso all’amicone, dall’eroe al cosmopolita), tratteggiati con finezza e simpatia. Da qui anche nascono i ritratti degli studenti, tenendo sempre presente una storia vera, un episodio, un successo educativo o un fallimento apparente: come Veronica, alunna in profonda difficoltà, che dopo aver concluso il liceo decide di passare le sue estati in una periferia degradata, cercando di strappare i bambini alla criminalità, e che dopo la laurea manda un messaggio al vecchio professore: «Nessun ragazzo è perduto, se ha un insegnante che crede in lui».

Ma oltre alla vita scolastica, Erba guarda anche a cosa piano piano sta diventando la scuola del ventunesimo secolo: così critica la direzione “quantitativa” oggi dominante, mettendo in discussione anche quelle indagini (è il caso di Eduscopio, a cui dedica un intero capitolo), che valutano le istituzioni scolastiche sulla base delle performance universitarie degli studenti, senza tener conto del lavoro che c’è dietro un intero percorso, ignorando i contesti familiari e sociali, le povertà culturali, affettive, materiali (e senza “misurare” i livelli in entrata — aggiungo io — ammesso che poi si possa misurare la preparazione globale con i test).

Si diffondono dunque indagini che tendono a reiterare blocchi sociali, a confermare nelle posizioni i migliori e i peggiori. Certo, ammette Erba, avere delle indicazioni è utile: ma «è troppo facile ottenere risultati eccellenti da studenti già in partenza eccellenti. È fin troppo facile vincere i Mondiali con undici fenomeni in campo».

Un altro capitolo è dedicato alla didattica digitale, diventata comune a causa della pandemia: anche qui l’autore usa moderazione, ma avanza delle remore quando il reale viene offuscato dall’integralismo informatico. «Non si tratta dunque di rinunciare al virtuale. Si tratta però di aiutare i nostri figli a fare esperienza di realtà belle e ricche di significato. Non si può censurare il digitale, si può però mostrare che c’è altro, che è molto meglio».

Ma, in fondo, si chiede l’autore, perché si va a scuola? La risposta di Erba è chiara: «Per imparare a essere contemplatori di bellezza e per saperla poi donare agli altri. Per godere dei miracoli nei quali ogni giorno siamo immersi e, con gli occhi pieni di luce, spingere gli altri ad alzare a loro volta lo sguardo». Ne deriva però una grande responsabilità per gli insegnanti: «La didattica non è una clava per distruggere gli allievi a colpi di voto. Non è un posto riservato a teatro, un modo per fare selezione all’ingresso (…). La didattica è una scala che tu offri ai tuoi studenti perché possano salire in alto». Non sarà una definizione scientifica di didattica: ma è molto vera. Ed è quella che può rendere un insegnante un «maestro nella scuola di oggi».

di Sergio Di Benedetto