Mistero e segno nel pensiero di Yves Bonnefoy

Quel paese che è dietro ogni paese

Marc Chagall, «Derrière le miroir» (1962 particolare)
09 novembre 2020

Se si dimentica la sua natura di dialogo con chi la guarda, con chi si lascia raggiungere dalla sua forza di provocazione, dalle sue rivelazione inaspettate, l’arte non esiste, si potrebbe dire semplificando all’estremo la vasta, variegata, complessa riflessione di Yves Bonnefoy sull’immagine e il suo mistero.

Allo scrittore francese (nato a Tours il 24 giugno del 1923, morto a Parigi il primo luglio del 2016) Riccardo Bravi ha recente mente dedicato La poesia, tra due mondi. Saggio sulla funzione dell’«immagine» nell’opera di Yves Bonnefoy (Roma, Aracne editrice, 2020, pagine 92, euro 8) un libro che esplora l’opera di un autore conosciuto in Italia soprattutto per le sue traduzioni e i suoi versi, meno per la sua attività di critico d’arte sui generis. D’altra parte, il connubio tra poesia e critica d’arte, nota Bravi, è una caratteristica peculiare della cultura francese, da secoli.

Un dialogo simile era già in atto quando l’abate Sugero si occupava, a Parigi, della basilica di Saint–Denis, continuando con le riunioni attorno all’Académie de Peinture, nel Seicento, per proseguire con i Salons di Diderot. Bonnefoy si lascia ferire dal senso di finitudine che emerge dalle opere d’arte di Giacometti, Piero della Francesca, Giovanni Bellini, Andrea Mantegna, in «saggi che somigliano poco a quegli studi dei quali gli storici spontaneamente si fidano — scrive con sottile autoironia dei suoi libri —. Uno storico coerente non ama oltrepassare i confini di ciò che dei documenti dei fatti consentono legittimamente di chiamare verificabile (...). Mentre io, in queste riflessioni su Bellini o Piero della Francesca, oppure sull’Ariosto o Leopardi, mi avventuro spesso fuori da questo spazio del verificabile».

Nella lezione pronunciata durante l’insediamento al Collège de France nel 1981, intitolata La Présence et l’image, Yves Bonnefoy traccia le linee-guida di una poetica che lo accompagnerà tutta la vita. Se la parola Présence implica l’apertura del soggetto verso l’alterità, l’image evoca ciò che Baudelaire definiva (o meglio, viveva) come un oggetto di culto. Quei “sogni visibili” fissati nel bronzo, sulla pietra o su un foglio che si possono visitare nei musei o nelle biblioteche, tante volte evocati da Bonnefoy: quadri dimenticati nei depositi, sculture antiche sepolte che vengono scoperte improvvisamente da un aratro, inscrizioni rivelatrici ma indecifrabili che si sbriciolano appena toccate.

Sono proprio questi sogni visibili il terreno di caccia su cui si avventura la penna di Riccardo Bravi. Bonnefoy non teme di “rischiare” il dialogo diretto con l’opera d’arte, convinto com’è che il prodotto di una soggettività non possa pienamente rispondere che a un approccio di analoga natura soggettiva. Anche perché — scrive in La civiltà delle immagini. Pittori e poeti d’Italia (Donzelli editore, 2005) — questo metodo «è il solo che lasci libero d’esprimersi l’affetto che è auspicabile provare per loro, perché senza affetto l’ammirazione s’impoverisce e il sapere è cieco. E quindi ho assunto il rischio che un certo quadro o una certa poesia divengano lo specchio dei miei modi di pensare o di essere nel momento stesso in cui comunque credo di avere avvicinato il nucleo più intimo dell’opera». Grande è questo rischio, confessa Bonnefoy al suo lettore, «e conosco i disastri che può determinare. Ma non è più dannoso del tipo di studio che s’impedisce di fare ipotesi su un sentimento o un pensiero. E vorrei, tra imprudenza e circospezione, un dialogo nel quale l’una ascolterebbe l’altra, ne mediterebbe il rimprovero. Quanto a me, nulla accetterei più volentieri».

Di Bonnefoy, scriveva anni fa Antonio Prete, si può dire quello che Nietzsche diceva di Leopardi: «amo i poeti che pensano». Infatti la sua poesia è un pensiero che interroga i confini stessi dell’attività speculativa umana, sferrando un duro attacco contro l’apparente verità delle cose, ma sempre cercando un radicamento nel qui e ora, nella opacità della terra, grazie al ritmo di una prosa che ha portato la tradizione francese del saggio verso forme nuove, in cui la descrizione di un’opera d’arte è racconto, il ricordo è meditazione, l’analisi è evocazione di figure e di luoghi.

Nei suoi Entretiens sur la poésie, lo scrittore definisce il significato come un movimento d’astrazione o, per riprendere un termine a lui caro, un movimento di trascendenza. La poesia diventa quindi il luogo dell’intelligenza delle parole, dove ricercare una nuova adesione all’essere, ottenuta liberando le energie dimenticate dal linguaggio ed evocando immagini-totem, come la salamandra (simbolo di una conoscenza astratta, che pietrifica quello che tocca) il cervo, che porta con sé il tema della caccia e dell’assenza, la notte e il numero, immagini “incontrate” durante i suoi frequenti e lunghi soggiorni in Italia.

Un paese-scrigno di immagini raccontato nel lungo poema in prosa di stile proustiano intitolato L’Arrière–pays; l’entroterra, ma anche il paese “dietro”, oltre a ogni paese, un luogo mitico e concretissimo dove Mistero e segno coincidono.

di Silvia Guidi