La sacra devozione alla natura

Come il canto degli uccelli

Lo spartito della «Sinfonia pastorale»
07 novembre 2020

La sacra devozione alla natura


«Dio nel-l’univer-so e l’uni-verso in Dio Onnipotente, nella foresta! Io sono beato, felice: ogni albero parla attraverso te. O Dio! Che splendore! In una tale regione boscosa, in ogni cima vi è pace, la pace per servire Lui. Nel bosco c’è un incanto. È come se in campagna ogni albero mi facesse intendere la sua voce dicendomi: “santo, santo!”». L’uomo che si esprime con queste parole è lo stesso che di lì a poco avrebbe composto la sua sesta sinfonia in fa maggiore, esplicitamente definita “Sinfonia pastorale”, coronamento artistico della sua devozione alla natura, quasi un officio sacro, una dedizione totale e quotidiana. Fin dai primi anni del diciannovesimo secolo Beethoven aveva preso l’abitudine di trascorrere il periodo estivo nei dintorni della capitale, immerso nel verde del bosco viennese, dedicandosi a lunghissime e corroboranti passeggiate. Portando con sé soltanto un piccolo blocco per appunti il musicista amava fermarsi sotto un albero, di fronte a un ruscello, in una radura dove ancora riusciva a distinguere il canto degli uccelli. Con la sua superiore capacità di tradurre in musica le impressioni più intime della propria personalità così come le suggestioni che filtrava dal mondo esterno, Beethoven però non racconta semplicemente la natura ma l’anima dell’uomo che non vi si confonde, né si perde in vaghe e incorporee atmosfere e, sempre in modo lucido, riproduce i sentimenti che quella visione, quell’immersione fisica e autentica nella naturalità genera. Lo scrisse anche direttamente: questa sinfonia «non è pittura ma espressione dei sentimenti» e per questo accompagnò ognuno dei cinque movimenti con una rapida e pregnante descrizione. Chiarissima già la prima «Risveglio di piacevoli sensazioni all’arrivo in campagna». Sensazioni che immediatamente traduce con i mezzi musicali. Ed ecco allora che senza un’introduzione la musica entra subito nel racconto di quell’impressione. Si alza il sipario con le prime note ma noi non vediamo un paesaggio, entriamo piuttosto nello spirito dell’uomo che lo sta contemplando. Lo stesso accade nel secondo movimento la celebre “scena presso il ruscello”. Anche durante le prove della prima esecuzione, in quel dicembre del 1808 Beethoven lo aveva raccomandato agli orchestrali, puntando proprio sull’evocazione: «È un ruscello, più grande il ruscello, più il suono deve essere profondo e pieno». Gli archi così disegnano delle melodie sinuose, che ancora una volta non descrivono ma comunicano il ritmo incessante di un flusso. E infatti al di sopra di quell’accompagnamento la musica si libra e segue le vie dell’immaginazione, della fantasia che vede lo sbocciare della vita che si squaderna sulla scena. E all’apice ecco l’ennesimo colpo di genio: l’orchestra tace al momento della cadenza, quando tocca al solista improvvisare e qui Beethoven convoca davvero i suoni della natura. Con i fiati e con gli adeguati intervalli riproduce il canto degli uccelli. È a loro che spetta l’ultima parola, nell’autenticità di ciò che sta accadendo. Non che l’orchestra fino ad allora abbia mentito, ma quello è il momento di verità. Prima c’era l’uomo che guardava e immaginando sovrapponeva il suo Io al paesaggio; ora invece c’è lei, la natura, sola con i suoi interpreti minimi, indifesi eppure preziosi. Pare lo abbia detto una volta all’amico Anton Schindler. «Questa musica gli uccelli l’hanno composta assieme a me». Forse non è vero, ma non importa. Perché non è mai falso quello che si improvvisa, come sa fare solo la musica, attorno alla verità.

di Saverio Simonelli