Il percorso accidentato di David Sylvian

La salvezza nella musica

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06 novembre 2020

Trovai David Sylvian e l’album The Secret Of The Beehive, scelto a casaccio in uno store di dischi e attrezzature per discoteca. Sylvian arrivò dopo ascolti copiosi di Billie Holiday, le opere di Maurice Ravel, oltre gli indigesti nastri di Robert Fripp. La scoperta di Sylvian fu quanto mai opportuna, direi provvidenziale, in quel disco infatti egli comunica la sua spiritualità e stabilisce un contatto con la vita interiore dell’ascoltatore.

Sono pochi quelli in grado di compiere una comunicazione così forte e intima. I suoi testi offrono l’opportunità di riflettere sulla dimensione spirituale della vita spesso ignorata. L’album racconta il distacco di Sylvian dal cristianesimo cui era stato educato, specie la nota Forbidden Colour, incentrata sul sacramento della Comunione. Il sangue di Cristo è citato nel testo come simbolo di una fede ormai svuotata di senso. L’Eucarestia, per i cattolici, non è segno ma Cristo stesso, ma Sylvian tratteggia un’esperienza vissuta e ormai finita perché Gesù non interessa, non attrae più: «Il sangue di Cristo, o il battito del mio cuore, il sangue di Cristo, o una nuova scelta del cuore». Non abbiamo nulla a disposizione per capire cosa è successo a un certo punto nella vita di David, se la canzone sia biografica o una storia fantastica non ci è dato sapere. Un altro brano ancora più drammatico è Waterfront; narra il deragliamento di un treno vuoto, immagine presa in prestito dai neri Spirituals e riferita al cammino spirituale interrotto bruscamente: «Guardo il treno avanzare a tutto vapore, mentre affronta una curva. Vagoni vuoti deragliano e precipitano verso la loro fine. Così il mondo s’allontana stilla a stilla. E mentre il vino ti dà alla testa. Angeli presuntuosi t’additano e ridono. Stavolta il tuo Dio è morto».

Ci sono versi di The Devil’s Own in cui appare chiaro il combattimento interiore di Sylvian: «Il ticchettio dell’orologio. Certo non mancherà molto all’alba. Quando l’oscurità si cela nella propria ombra. Il demonio percuote il suo tamburo, lanciando il suo nome. Trascinando nella vergogna ciò che è in suo potere». C’è il desiderio di felicità in Let The Happiness In: «Ascolto le onde contro gli scogli. Non so da dove vengono. Aspetto che i cieli si aprano e lascino entrare la felicità».

David Sylvian si dichiara ateo, ma rimane quel patrimonio di esperienze condivise durante la prima parte della sua carriera solista (lui ex Japan) che trae spunto dal vissuto di una fede, quella cristiana, racchiusa in un “trittico religioso”, come fu per Bob Dylan, Nick Cave e molti altri. Brilliant Trees, Gone To Earth e il già citato The Secret Of The Beehive, sono album prodotti tra il 1984 e il 1987, dischi che compongono un mosaico di fede e devozione assai raro in cui alla percezione conflittuale del divino fa da collante il tema della perdita. Quasi un’economia della salvezza al rovescio: Dio, mentre si rivelava progressivamente è rimasto comunque distante, sconosciuto, straniero.

In Brilliant Trees troviamo parole indubbie, come nel brano Pulling Punches: «Avevo bisogno di qualcuno che mi rassicurasse. Esaltato in giorni di splendore estivo. Chi avrebbe sognato di un amore infinito?». Il dolore per la perdita della fede viene sviscerata in Weathered Wall: «Affliggersi e piangere per la perdita del Paradiso al Muro del Pianto. Eri qualcuno in cui credere. Impegnavi la vita dove c’era desiderio d’imparare. Ma è nella natura del vivere considerare solo gli anni che restano al tuo cuore».

La morte dell’anima e la disperazione si fanno strada nell’omonima Brilliant Trees: «Ogni progetto che ho accarezzato s’è smarrito nell’ordine delle cose. Entro ogni lezione si cela il prezzo per apprendere. Una ragione per credere si allontana da me. Ogni speranza che nutro giace tra le mie braccia». L’album Gone to Earth nella canzone Before The Bullfight riassume in qualche modo quello che accade nel confessionale e cioè quando la colpa viene perdonata con l’assoluzione impartita dal sacerdote.

Quei peccati rimangono come una macchia sulla coscienza del penitente, non completamente abbandonato alla misericordia divina: «Quando tutto è perdonato, ogni colpa è ancora mia. Affronterò il mio turno. Mi cimenterò nella corrida. Dì una preghiera per la mia liberazione. Quando la speranza è ormai assopita, ogni speranza, e tornerà la mia forza. Per la lotta nella corrida». Si canta anche d’una vocazione che affascina una ragazza in Takin The Veil: «In abiti bianchi, pronta veleggiare. Una ragazzina sicura e giudiziosa sogna di farsi monaca».

Qualche anno più tardi Sylvian inciderà Dead Bees on a Cake, disco ispirato all’induismo e di seguito Blemish, dedicato quasi interamente alla figura del poeta anglicano R. S. Thomas così come fu per il disco Manafon in cui desiderava il Dio delle religioni monoteiste, con tematiche riguardanti le tensioni e le cadute che segnano il percorso spirituale dell’artista.

Vale la pena evidenziare A Fire In The Forest di un disco invece claustrofobico, cupo e difficile, con un verso che apre alla speranza. «Vorrei vederti, è piacevole vederti. Vieni e portami da qualche parte, portami via. Il sole risplende sempre molto oltre il cielo grigio. Io so che lo troverò. Sì, io tenterò». Rimane il mistero che avvolge l’album Died in the Wool in cui rilegge Manafon, l’artwork del disco presenta immagini simboliche giudeo cristiane di grande valore artistico.

Anni fa il giornalista canadese Anil Prasad, in un’intervista, disse a David Sylvian che la sua musica era terapeutica, sanava la follia, offriva una via d’uscita alla disperazione. Rispose che era l’obiettivo primario del suo lavoro artistico: «Penso che la musica possa dare all’ascoltatore un rifugio sicuro per aprirsi a se stesso. La musica è un luogo di guarigione, consente agli ascoltatori di familiarizzare con le emozioni che non si sentono sicuri di esplorare altrove. Possono familiarizzare con esse, non importa
se rievocative, tristi o malinconiche». Dotata in sé d’una forza curativa potente, c’è salvezza nella musica di David Sylvian, il posto giusto per ricercare. Qualcuno con cui interloquire.

di Massimo Granieri