«L’archivio del diavolo», il romanzo gotico di Pupi Avati

Il timore di non vedere Dio

Gustave Doré, «Lucifero immobilizzato al centro del Cocito» (XIX secolo)
06 novembre 2020

Pupi Avati prende per mano il lettore e lo trascina nella tomba. Il signor Diavolo raccontava la storia, ambientata nella campagna veneta degli anni Cinquanta, di un ragazzo che uccide un coetaneo, convinto fosse il demonio. Per moltiplicare il raccapriccio, un’ostia della prima comunione finiva inghiottita da un maiale insieme al pastone, una neonata veniva uccisa a morsi dal fratellino e un bambino morto sembrava tornare dall’aldilà.

A indagare sul cumulo di orrori c'era un detective penosamente inadeguato: Furio Momentè, mediocre e viscido funzionario del ministero di Grazia e Giustizia. Talmente inadeguato che finiva rinchiuso da un perfido sagrestano in una cripta tenebrosa sotto il pavimento della chiesa di un paesino della laguna veneta, Lio Piccolo.

Ora, nel nuovo romanzo L’archivio del diavolo (Milano, Solferino, 2020, pagine 272, euro 16), il giovane parroco di quella chiesa sinistra solleva la pietra tombale della «buissima fossa» e scopre il cadavere putrefatto di Momentè.

Ma quello che più inquieta la polizia è che Momentè risulta essere tornato a Roma, presente regolarmente ogni giorno nel suo ufficio di via Arenula, anche se sembra diventato più brusco e silenzioso.

Guarda caso lavora nell’archivio posto nel buio scantinato del ministero e quando qualcuno andrà a cercarlo, accadranno cose poco belle. Tutto il romanzo ruota intorno alla paura del buio, la più infantile e la più terribile delle paure.

E, collegata a questa, la paura di essere sepolti vivi. Quella che tormentava Nikolaj Gogol, il cui cadavere, quando fu riesumato, fu trovato in una posizione contorta e senza il cranio, con segni di graffi sulla bara. Per i medici positivisti, un fenomeno dovuto ai gas della putrefazione e il macabro furto di qualche ammiratore; per Pupi Avati, un altro misterioso tassello del suo nerissimo puzzle.

Un romanzo gotico così estremo da non lasciare scampo né ai personaggi né al lettore, che si trova anche lui recluso in un labirinto di malvagità dal quale è impossibile salvarsi.

Anche perché al posto dell’eroe senza macchia e senza paura, c’è un povero prete senza fede, debole di fronte alle tentazioni della carne. Che cosa può fare contro «la somma maestà del male»? Il diavolo probabilmente è il titolo, derivato da Dostoevskij, di un film di Robert Bresson, il maestro del cinema al quale è intitolato un Premio che quest'anno è stato assegnato, durante la Mostra di Venezia, proprio a Pupi Avati.

Cattolico fervente e anomalo come Bresson, Avati eredita invece da Gogol l’idea che il diavolo non probabilmente, ma sicuramente «si prende gioco degli uomini», rubando le loro anime. E chissà che non ci sia anche un’eco dantesca del xxxiii canto dell’Inferno, con Branca Doria che «lasciò il diavolo in sua vece nel corpo suo» e «in anima in Cocito già si bagna e in corpo par vivo ancor di sopra».

Il diavolo di Avati è il male assoluto di un cattolicesimo preconciliare, dove la bellezza femminile rappresenta una trappola mortale disegnata dal maligno. Per trovare una fascinazione analoga sulla figura di Satana bisognerebbe risalire a Il diavolo di Giovanni Papini, pubblicato proprio in quel 1953 nel quale è ambientato il romanzo di Avati.

I vari capitoli sono poi intervallati da «allucinazioni ipnagogiche» comuni a personaggi disparati nel tempo e nello spazio, quasi un serbatoio di ricordi inquietanti che si manifestano nell’abbandono tra la veglia e il sonno (un ragazzo fruga con le mani insanguinate dentro la carcassa di un piccione morto, un altro vomita per aver mangiato il cadavere di una bambina). Allo stesso modo lo stress dovuto al carico di sgomento e alla mancanza di sonno rende febbricitanti certi personaggi, che attraversano imbambolati la via che li porterà alla catastrofe.

L’obiettivo di un tale scatenarsi di sfrenate diavolerie horror sembra essere quello, espresso da una luminosa allucinazione ipnagogica, di «fare pace con la morte». Familiarizzare con la paura gogoliana di essere chiusi nella bara da vivi significa anche familiarizzare con la morte.

Sarà per questo che tutti i personaggi del romanzo hanno i nomi di persone realmente vissute e oggi scomparse: alcune note, ma presto dimenticate, come Beatrice Macola (attrice che lavorò con Avati e Spielberg), Luigi Kuveiller (direttore della fotografia di Elio Petri), Franco Ciani (il cantautore che sposò Anna Oxa), Giampaolo Rugarli (scrittore solitario e anticonformista, pubblicato da Adelphi); altre meno rintracciabili, probabilmente collegate alla vita privata di Avati.

È curioso che in un romanzo dominato dalla morte e scandito dal buio puzzolente di cripte o bare chiuse, dove il Male trionfa, l’autore decida di rendere omaggio ai veri morti, resuscitandone in queste pagine almeno i nomi: una strategia letteraria un po’ pascoliana per impedire che il nulla inghiotta le nostre esistenze.

Perché la paura più profonda è forse quella di non vedere Dio: è quando il fragile prete legge nel Vangelo «Beati i puri di cuore perché vedranno Dio» che si arrende e capisce di essere perduto.

di Fabio Canessa