Per la cura della casa comune

È il tempo dell’industrializzazione verde ma attenzione al “greenwashing”

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06 novembre 2020

Quale sarà la “fabbrica del mondo” del xxi secolo? La risposta a questa domanda può essere solo la reindustralizzazione verde dell’Europa. Per questo motivo oso affermare che la transizione ecologica è il grande progetto politico, economico e sociale che l’Europa ha davanti a sé per i prossimi anni. Si tratta del passaggio da una società basata su fonti di energie di natura fossile a una società in cui l’energia deriva da fonti rinnovabili. Già in Francia — ci ho lavorato con l’allora presidente Hollande — sono stati previsti 10 scenari della transizione ecologica. Non conosco la situazione in Italia ma sono sicuro che qualcosa del genere esiste sicuramente anche qui. Comunque, tutti questi 10 scenari prevedono tre elementi comuni. Vediamoli brevemente.

Il primo è il rinnovamento termico degli edifici: si tratta di un’opportunità incredibile, non c’è bisogno di un nuovo Albert Einstein per metterla in pratica perché abbiamo il know how e le competenze tecniche per farla. Serve solo un piano strategico per metterla in atto. Le aziende edili in Francia mi hanno suggerito che se verrà presa questa strada, dovremo farlo con ordine perché non abbiamo sufficiente manodopera specializzata rispetto ai bisogni: nell’arco di uno o due anni al massimo, questo intervento potrebbe portare alla creazione di 500 mila nuovi posti di lavoro solo in Francia.

Il secondo punto qualificante della transizione ecologica è la mobilità verde. Che significa, concretamente, il passaggio da una società in cui i mezzi di trasporti sono con energia di natura a fossile a mezzi di locomozione “verdi”, essenzialmente l’auto elettrica e il treno. Certamente ci troviamo davanti, almeno in Francia, ad una situazione difficile da questo punto di vista perché le politiche di privatizzazione degli ultimi anni hanno portato all’abolizione delle tratte ferroviarie regionali e locali tutto a vantaggio dell’alta velocità. Questo, per fortuna, non è avvenuto in Germania, in Belgio e in Svizzera, dove esiste ancora un’ottima rete locale di treni.

Tutto ciò significa anche un’altra urbanizzazione: città molto dense, collegate tra di loro da una fitta rete di trasporti locali, sia ad uso passeggeri che ad uso merci, nelle quali anche i supermercati vengono posizionati vicino alle stazioni ferroviarie perché le merci e gli alimenti viaggiano su rotaia, e quindi vengono smerciati vicino alle stazioni. Questo significa anche l’abbandono dell’immaginario della cittadina media californiana, dove le abitazioni si trovano a cinquanta metri le une dalle altre. Con alcuni ingegneri abbiamo fatto un raffronto già oggi tra una città spagnola, Barcellona, e una città americana, Atlanta: a parità di grandezza di abitanti e di pil, la prima consuma il 10% dell’energia della seconda. Una pianificazione urbana intelligente può quindi consentirci di ottenere enormi vantaggi in termini di efficienza energetica. Mobilità verde significa anche ricerca e innovazione sul treno ad idrogeno e ammoniaca, sulla quale — per esempio — la Germania sta spingendo molto. Dobbiamo fare ricerche per essere in grado di produrre idrogeno "verde".

La terza tappa essenziale per la transizione ecologica è la reindustrializzazione verde dell’Europa e l'agricoltura verde. Quest'ultima chiede l'abbandono dell'agricoltura fosfata e dell'agricoltura drogata di petrolio a favore dell'agricoltura biologica, dove l'agroforestazione e la permacultura devono poter svolgere un ruolo importante. Naturalmente, ciò è incompatibile con la politica agricola comune (Pac), che deve essere pienamente riformata. Oggi, in Francia, ogni mese oltre un agricoltore sovraindebitato, in gran parte a causa della Pac. La riforma agricola dovrebbe essere una questione significativa e dibattuta anche in Italia, dove l'erosione del suolo è molto rapida e dove ci si troverà in crisi idrica in meno di due decenni.

La reindustrializzazione verde significa, molto semplicemente, l’abbandono di una certa tecnologia microelectronica, ad esempio quella dell’Iphone, che significa l’assemblaggio di centinaia di pezzi di metallo non riciclabili. Dobbiamo invece progettare sempre di più prodotti facilmente riciclabili con l’utilizzo di poca acqua, di pochi metalli e di poca energia. Ho compiuto recentemente degli studi con il geofisico Olivier Vidal sulla densità delle riserve di rame: se 20 anni fa tale densità (il rapporto tra quanto bisogna scavare e l’ottenimento di un chilogrammo di rame) era del 5%, oggi è dell’1%, ovvero per una tonnellata di terra scavata si ottiene un chilo di rame. È chiaro che il ricorso all’uso di acqua e di energia in questo caso non segue una curva lineare ma esponenziale. Oggigiorno l’America latina inizia a soffrire la mancanza di acqua. Me ne sono reso conto quando mi sono recato in Bolivia: La Paz, la capitale, è un deserto a 4 mila metri, perché i ghiacciai delle Ande si sono sciolti e la città quasi non viene più rifornita di acqua dalle montagne.

Eppure, per una società più ecologica avremo bisogno di molta acqua per riciclare i nostri prodotti. Le aziende che riciclano hanno bisogno di rame. La mia ricerca mostra che il picco dell’estrazione del rame sarà raggiunto nel 2060: non significa che da quell’anno in poi non potremo più estrarre rame dal sottosuolo, vuol dire che non saremo più in grado di aumentare il flusso di rame estratto. Se non troviamo sostituti al rame, la stessa industria del riciclo andrà in tilt. Soprattutto perché abbiamo bisogno di rame per le infrastrutture associate alle energie rinnovabili.

Anche sul risparmio energetico dobbiamo fare passi in avanti significativi. Prendiamo l’esempio di un’automobile: la sua efficienza energetica è molto migliorata dagli anni Settanta, ma consuma la stessa quantità di energia. Del resto negli ultimi anni ad un’automobile abbiamo aggiunto tutta una serie di optional che assorbono energia per la loro funzionalità: il gps, il computer di bordo, la televisione, gli alzacristalli elettrici, che una volta erano semplicemente una manovella azionata a mano.

Per realizzare la reindustrualizazione verde abbiamo bisogno di un contesto sociale in cui vi sia una popolazione educata e istruita, pronta a seguire le indicazioni tecniche. Il Giappone sarebbe perfettamente la società prescelta, ma non può farlo perché economicamente si trova dentro una deflazione ormai spaventosa e il debito pubblico ha già raggiunto il 250% del pil. Gli Stati Uniti non possono realizzarlo perché non hanno una popolazione sufficientemente educata al riuso e al riciclo dei prodotti. Quello che può fare tutto questo è l’Europa, dove c’è una popolazione educata al “verde”, una situazione economica che lo permette e un’industria ancora pienamente attiva. Io sogno questo, sogno un’Europa che sappia rimodellare il proprio volto industriale in maniera “verde”.

Per attuare questa transizione ecologica dobbiamo liberarci dell’antropologia di Leonardo da Vinci, ben rappresentata dall’uomo di Vitruvio. Questo disegno, famosissimo, è rappresentato sull’euro, la moneta di un’Europa che io vorrei diversa.

Se guardiamo l’euro, ci rendiamo conto che abbiamo costruito un’Europa sull’ideale di un uomo maschio, ovvero senza l’alterità della donna; bianco, senza il confronto con le altre culture; adulto, rispetto al quale vengono a mancare le altre generazioni, gli anziani e i bambini; per lui le differenze non esistono; un uomo che vive senza il contatto con la natura e privo di relazioni. Questa solitudine metafisica dell’uomo vitruviano è quella che mi sembra stia alla base di quest’Europa senza anima. Sottostante a tale visione troviamo un’idea di dominazione dell’altro propria dell’uomo bianco europeo. Abbiamo, invece, bisogno di liberarci da questa antropologia in favore di una visione relazionale in cui l’altro è importante; una prospettiva secondo la quale esiste un legame intergenerazionale significativo fatto di cura verso i più anziani e di responsabilità verso i più giovani; abbiamo urgentemente bisogno di un’antropologia in cui l’essere umano entri in una relazione positiva con la natura.

La pandemia da coronavirus è fondamentalmente basata sulla mancanza di distanza dell’uomo da animali che non conoscevamo. L’Oms ci ha già detto che altre pandemie potranno arrivare nel futuro, a causa dell’incessante deforestazione che ci mette a contatto con specie animali a noi sconosciute. Anche la malaria si sta diffondendo sempre di più e secondo studi recenti entro 30 anni sarà di nuovo presente in Italia e in Spagna.

Mark Carney, governatore della Banca centrale d’Inghilterra, durante una celebre conferenza alla compagnia di assicurazione Loyd nel 2015, ha utilizzato l’espressione «tragedia dell’orizzonte»: in quell’occasione egli denunciava l’impatto dei cambiamenti climatici sull’economia, ad esempio sul sistema assicurativo e ri-assicurativo rispetto all’innalzamento del livello delle acque dei mari. Così come era forte la sua sottolineatura sul fatto che i fondi finanziari hanno nei propri bilanci attivi finanziamenti collegati a investimenti nelle energie fossili, legati dunque al petrolio. Ma se si prende sul serio la transizione ecologica, che è la nostra unica via di uscita rispetto ad un cataclisma climatico, dobbiamo ammettere che quegli attivi finanziari sono nulli perché il petrolio, di qui a qualche anno, non avrà lo stesso valore di oggi.

Per questo motivo le banche oggi vivono un grande dilemma: da una parte operano il greenwashing per darsi una parvenza “verde” che serve ad accreditarsi verso l’opinione pubblica, dall’altra hanno al proprio attivo fondi importanti collegati alle energie fossili. Per questo io punto e discuto molto con il mondo della finanza: se la banche non finanzieranno la transizione ecologica, questa non potrà mai avvenire. Se invece il mondo finanziario capirà che solo finanziando la transizione ecologica anch’esse potranno avere un futuro, allora il nostro domani potrà essere più roseo del nostro fosco presente.

di Gaël Giraud