L’impegno della Chiesa accanto agli sfollati

Sostegno ininterrotto nel dilagare degli attacchi

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05 novembre 2020

Si fa sempre più grave la crisi umanitaria in seguito alle violenze nella provincia di Cabo Delgado, nel nord del Mozambico. Sono almeno trecentomila le persone in fuga dagli attacchi, iniziati tre anni fa, da parte dei gruppi estremisti islamici. I morti si contano tra i millecinquecento e i duemila. Una cinquantina di giovani sono stati uccisi per essersi rifiutati di arruolarsi con la forza. In questi giorni continuano ad arrivare barche di fortuna sulla spiaggia vicina alla città di Pemba, dove opera un coraggioso vescovo, di nazionalità brasiliana che non smette di denunciare nonostante abbia ricevuto minacce e sia in pericolo, come i suoi sacerdoti, religiose e missionari.  Luiz Fernando Lisboa, vescovo di Pemba, ha lanciato in queste ultime ore una richiesta di aiuto e un appello alla «solidarietà della comunità mozambicana e internazionale». In un video parla di almeno 170 barche piene di persone disperate. Ci sono anche naufragi con vittime. «È una situazione molto difficile», racconta il presule. «Centinaia di persone dormono in spiaggia, molte muoiono durante il cammino. Altri trascorrono tre o quattro giorni in mare ed arrivano disidratati e affamati. Abbiamo bisogno dell'aiuto e della solidarietà della comunità mozambicana e internazionale».

La popolazione soffre molto e anche per gli occidentali non sono tempi facili: dopo il recente rapimento e rilascio di due suore della Congregazione di San Giuseppe di Chambery, il vescovo di Pemba ha ritirato i missionari dalle zone più calde. Lo stesso Papa Francesco ha chiamato personalmente monsignor Lisboa il 21 agosto scorso per esprimergli vicinanza e sostegno e incoraggiarlo a proseguire nel suo lavoro a fianco degli sfollati. Le persone fuggono perché hanno dato fuoco ai loro villaggi o perché hanno paura di ulteriori violenze. L’ultimo attacco di questi gruppi jihadisti, probabilmente legati al sedicente stato islamico (Is), è stata la conquista della città portuale di Mocímboa da Praia, luogo strategico per i trasporti delle ricchezze naturali dei grandi giacimenti di gas della zona, sui quali hanno già messo le mani le multinazionali straniere.

La maggior parte degli sfollati si rifugiano nei pressi di Pemba. Vanno a vivere in vecchie capanne con altre famiglie numerose, senza acqua né servizi igienici, fino ad arrivare a un massimo di venticinque persone accalcate sotto uno stesso tetto. Tutto ciò in un anno di grande fame e carestia con la minaccia del covid-19, che fortunatamente ha colpito poco il Mozambico, e la stagione delle piogge in arrivo. I profughi arrivano anche nella vicina provincia di Nampula, diocesi di Nacala, nella missione di Cavá-Memba guidata da don Silvano Daldosso, fidei donum di Verona, da tredici anni alla guida di 47 piccole comunità sparse in un territorio rurale di cento chilometri quadrati. È affiancato da due laiche missionarie fidei donum — Elena Gaboardi, della diocesi di Lodi, e Gloria Agazzi, della diocesi di Bergamo — e da uno stuolo di laici e catechisti. La Caritas diocesana di Nacala, di cui si occupa la lodigiana Gaboardi, è presa d’assalto ogni giorno da centinaia di sfollati provenienti da Cabo Delgado. Al momento ce ne sono già 28.700. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati prevede che diventino quarantamila entro dicembre nell’intera provincia di Nampula. Da luglio ad oggi sono impegnati nella distribuzione di seicento kit alimentari al mese, per sfamare altrettante famiglie. Anche il World food programme, programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, sta consegnando alimenti nei diversi distretti della provincia.

«Dall’inizio di ottobre la situazione è fuori controllo, stanno arrivando sempre di più sfollati», racconta don Silvano. «Il vero grande problema da noi non è il coronavirus ma il vicino conflitto. Facciamo quello che possiamo, una piccola goccia nel mare». Sul suo sito don-silvano.org ha anche aperto una raccolta fondi per acquistare cibo.

La vita nella missione prosegue, così, tra le difficoltà dovute alla pandemia e il grande afflusso di disperati da Cabo Delgado. Per le comunità rurali è impossibile trovare prodotti sanitari per igienizzare le cappelle, secondo quanto previsto dalle norme governative. Don Silvano si sposta tra le sue 47 comunità guidate da laici e celebra i sacramenti con poche persone e all’aperto. Al momento le catechesi sono ancora vietate, per evitare assembramenti.

I media nazionali non parlano del conflitto a Cabo Delgado, mancano notizie certe. I giornalisti che provano ad indagare vengono fatti sparire o uccisi. Le poche fonti sono i racconti degli sfollati e qualche piccola testata indipendente. Il missionario ci tiene a sottolineare che la sua è una interpretazione personale dei fatti, nel tentativo di ricostruire uno scenario altamente complesso, con enormi interessi in gioco, soprattutto economici e geostrategici.

Il conflitto è iniziato nei primi mesi del 2017 con alcuni attacchi al confine con la Tanzania, ma senza vittime. «Venivano considerati dei gruppi sovversivi che esprimevano in questo modo il proprio malcontento verso il governo», spiega. È una delle zone più povere e abbandonate del Mozambico, priva di servizi sociali e sanitari, con un altissimo tasso di analfabetismo. Da allora gli attacchi sono diventati sempre più frequenti e sono violenti, con morti e feriti. Il governo li ha definiti terroristi islamici e dopo un periodo di smentite e silenzio, ha inviato dei mercenari russi e sudafricani».

Ma la situazione è peggiorata. Anche perché i gruppi estremisti, ben organizzati e con mezzi e armi molto sofisticate, hanno attinto al disagio dei giovani mozambicani per arruolarli e creare una rete di informatori nei villaggi, in cambio di denaro. Molti giovani sono minacciati e costretti ad arruolarsi. Spesso anche le famiglie subiscono minacce.

Il cuore della questione, come spesso accade in molte zone povere del mondo, sono i ricchi giacimenti di gas naturali, tra i più grandi dell’Africa australe. Per sfruttarli sono subito arrivate imprese americane, francesi. A tutto ciò si è aggiunta una crescente radicalizzazione dell’islam, con soldi affluiti in massa per finanziare le scuole coraniche e affermare la sharia sul territorio di Cabo Delgado e di altre provincie. «Forse l’Is voleva che diventasse una sua provincia, impossessandosi delle ricchezze di queste zone», è l’analisi del sacerdote. «Ma gli interessi in gioco sono tanti e di diverse nazioni. Ci potrebbe anche essere la volontà di destabilizzare la situazione economica a livello mondiale». Anche se è difficile ricostruire tutti i contorni della crisi, risulta evidente «che dietro non c’è una mente unica. È un fenomeno complesso, voluto e cercato, con obiettivi molto chiari, tra cui quello di far spostare le persone per lasciare spazio agli impianti estrattivi».

di Patrizia Caiffa