La settimana di Papa Francesco - Uomini delle Beatitudini

Nessun santo è un’isola

Giotto «Giudizio universale» (1306, particolare)
05 novembre 2020

Quand’ero ragazzo, per spiegarmi il significato della solennità di Tutti i santi, la mia mamma mi diceva che il loro numero era davvero tanto grande da rendere impossibile il loro inserimento nei giorni di un calendario ed era perciò necessario farne una festa che li includesse tutti. Era il suo modo di tradurre a un bambino i «centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele» richiamati dall’Apocalisse (7, 4). Il numero è davvero inesauribile, come inesauribile è la sapienza del Vangelo, che i santi hanno tradotto nella propria vita; è il numero di una pienezza, che cresce di giorno in giorno.

Il santo è sempre un «uomo delle Beatitudini», come san Giovanni Paolo ii chiamò Pier Giorgio Frassati nell’omelia per la beatificazione. Penso che pure il beato Carlo Acutis, le cui spoglie ho potuto venerare lo scorso 19 ottobre, abbia vissuto in pienezza, nonostante la sua giovane età, le beatitudini del Vangelo. Parlando di lui il Papa ha detto che «egli non si è adagiato in un comodo immobilismo, ma ha colto i bisogni del suo tempo, perché nei più deboli vedeva il volto di Cristo» (Angelus dell’11 ottobre 2020). Questa frase del Pontefice mi fa tornare alla memoria un’immagine che raffigura Carlo mentre, in uno scenario montano, cammina avendo uno zaino sulle spalle.

In un’associazione di ricordi, le parole del Papa mi riportano alla memoria pure un modo di tradurre quel «beati», che per nove volte è ripetuto nel racconto delle Beatitudini del Vangelo secondo Matteo (5, 1-12a). Mi riferisco ad André Chouraqui il quale, traducendo nella lingua francese il Nuovo Testamento, rese il «beati» con en marche, ossia «incamminiamoci»! Egli tentava così una retroversione nella lingua ebraica dell’esclamazione di Gesù, ipotizzando come versione originale sulle sue labbra l’interiezione ashréi che, alla luce pure del Salmo 1, 1, evocherebbe anche la rettitudine dell’uomo in cammino sulla via diritta, che lo conduce a Dio.

Ecco, dunque, che le virtù richiamate dalle beatitudini evangeliche divengono come delle strade che, conducono all’incontro con Dio. Il «beato» del Vangelo non è uno che può starsene tranquillo a godersi i propri meriti, ma è una figura «inquieta», cioè impegnata nella costante sequela di Gesù. È chi senza sosta segue il Signore e si pone fedelmente sui suoi passi.

La Chiesa stessa è un popolo pellegrino. Consideriamo pure che l’en marche è un’esclamazione al plurale e questo (per parafrasare un’espressione del poeta inglese John Donne poi ripresa da Thomas Merton) vuol dire che nessun «beato», nessun santo è «un’isola». C’è invece una comunione di santi. Dio, infatti, come ci ha insegnato il concilio, «volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità» (Lumen gentium, n. 9). È questo il mistero della universale vocazione alla santità di cui ha trattato lo stesso Vaticano ii e che noi contempliamo realizzata nel Paradiso.

Una seconda riflessione mi proviene da una lettura fatta proprio in questi giorni di un libro, donatomi dall’autore in occasione della mia nomina a prefetto della Congregazione per le cause dei santi. Si tratta del testo degli esercizi spirituali dettati dal padre François-Marie Léthel, carmelitano scalzo, alla Curia romana nel 2011 alla presenza di Benedetto xvi (cfr. La luce di Cristo nel cuore della Chiesa, Città del Vaticano, Libreria editrice vaticana, 2011). Il tema del corso di esercizi fu la «teologia dei santi», sviluppata ascoltando i santi e lasciandosi guidare da loro.

Nelle meditazioni ne richiamò alcune figure e tra queste c’è Charles Péguy, «un uomo che non è un santo, ma che come Dante, è uno dei più grandi poeti cristiani». Al riguardo, il padre Léthel ha scritto: «Integrare Péguy nella teologia dei santi ha per me un significato profondo, per dire che la comunione dei santi è aperta veramente a tutti gli uomini e che, secondo le sue parole, la comunione dei santi è anche comunione del peccatore e del santo, perché fondamentalmente è la comunione di Gesù Salvatore con tutti gli uomini e con ciascuno» (p. 217).

Confesso che all’inizio queste parole mi hanno quasi turbato; poi nel mio animo è scesa una profonda consolazione: la «santità» non è frutto nostro, ma il risultato di un travaso di misericordia per cui le energie di Cristo guariscono la nostra debolezza e fragilità. Ho ricordato allora che Cristo ci ama non perché siamo buoni e bravi... Una mamma e un papà, magari, dicono al loro figliolo: «Come sei bello, ti voglio bene...». Con Dio è diverso. «Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi... Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Romani 5, 6-8).

A questo s’aggiunge l’universalità della santità, che non rende superflue le voci più piccole e nascoste. La meraviglia della santità è proprio in questo essere in sé piccoli e deboli, ma grandi e forti quando si è immersi nell’immensità del Dio, che dà la forza. «Tutto posso in colui che mi dà la forza», scrive san Paolo (Filippesi 4, 13).

Egli guarda all’umiltà dei suoi servi e fa per noi quello che ha fatto per Maria, la madre santa del suo Figlio. Lo fa con la forza feconda e corroborante dello stesso Spirito, che inondò lei. Sicché nel grande coro dei santi, anche chi è piccolo e secondario sullo scacchiere politico del mondo e persino delle strutture ecclesiastiche è prezioso per la perfezione del numero dei centoquarantaquattromila segnati dal sangue dell’Agnello.

di Marcello Semeraro
Cardinale eletto prefetto della Congregazione delle cause dei santi