Ufficio oggetti smarriti

Quella sottile linea invisibile tra il comico e il dramma

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03 novembre 2020

A trent’anni dalla sua scomparsa, anche il nostro ufficio oggetti smarriti intende ricordare il grande Ugo Tognazzi. Il cuore di chi scrive batte in modo particolare per le sue interpretazioni in Romanzo Popolare, Amici Miei, I viaggiatori della sera e Il federale. Tutte pellicole diverse l’una dall’altra nelle quali però Ugo prende per mano lo spettatore e lo conduce lungo quella sottile linea invisibile che delimita il comico dal dramma. Quel farci sorridere di cose sulle quali ben poco vi è da ridere, piccole miserie, tic, segreti inconfessabili o amori impossibili, è forse il vero dono che Tognazzi consegna al cinema italiano. Siamo mostri talvolta ma in fondo, come diceva Carver «ce la mettiamo tutta». Dall’operaio milanese di Romanzo Popolare “reo” della sua genuinità e di aver messo su famiglia con una ragazza più giovane, al conte Mascetti di Amici Miei, passando per il protagonista delle storie della provincia profonda, per esempio quelle tratte dai romanzi di Piero Chiara (come La stanza del Vescovo e Venga a prendere il caffè da noi) o La mazurka della santa, del barone e del fico fiorone e Ultimo minuto (nelle sapienti mani di Avati). Oggi però vogliamo ricordarlo al fianco di un amico, Vittorio Gassman, un sodale profondo e sincero col quale ha condiviso una fetta della sua vita e il mestiere di attore. Nello specifico, ha condiviso questo film un pochino scomparso dai radar: In nome del popolo italiano (1971, Dino Risi). Mariano Bonifazi (Tognazzi) e Lorenzo Santenocito (Gassman) sono nati per essere rivali. Nemici. Il primo è un magistrato inquirente severo e integerrimo, la cui unica voce guida è la legge. Bonifazi è incorruttibile e inflessibile, non ha punti deboli e se li ha (la solitudine e un matrimonio andato male) sa come tenerli a bada. Il secondo è un costruttore di successo, di quelli disposti a tutto. Smaliziato, furbo e con diverse cose da nascondere. Santenocito è il prototipo di imprenditore del boom, i cui confini morali sono stati ridisegnati dalla ricchezza e dalla facilità di scambiare la stessa per impunità. Le loro strade s’incrociano quando viene assassinata una giovane accompagnatrice che Santenocito bene conosceva e frequentava. Viene infatti rinvenuto un taccuino (appartenente alla vittima) che, fra gli altri numeri di telefono ne contiene uno particolare. Il numero corrisponde al circolo canottieri Aniene ma è siglato in rubrica come Renzo. Bonifazi strappa Gassman a una festa in maschera e lo porta in questura vestito da legionario romano per chiedergli se «Lei si chiama Lorenzo, nessuno l’ha mai chiamato Renzo?». «Non potrei impedirlo» risponde Gassman. L’imprenditore, come dicevamo, non solo conosceva e frequentava la giovane accompagnatrice ma era solito avvalersi dei suoi servigi durante particolari cene di lavoro. Bonifazi non ha dubbi: l’uomo è colpevole. Il magistrato intende incastrare il costruttore per l’omicidio di quella ragazza mentre Santenocito (che si proclama ostinatamente e scompostamente innocente) deve rispondere a una semplice domanda: «Dov’era la notte del 7 maggio?». Quella dell’assassinio. Insomma, gli serve un alibi. «Chi ha sempre pronto in tasca un alibi?» risponde Santenocito «I delinquenti. Ecco perché io non ce l’ho». Il film diventa un corpo a corpo dialettico, etico, morale fra i due che apertamente non si piacciono e probabilmente anche due “Italie” che essi, in qualche modo, rappresentano. Sul set l’intesa fra i due è palpabile, al di là della grande capacità di Risi è nitida, nell’interazione di Gassman e Tognazzi, una sorta d’intimità che s’instaura nelle amicizie più fidate e durature. Come ogni grande giallo italiano dotato di fuoriclasse dietro la cinepresa, da Risi alla regia passando per Age e Scarpelli alla sceneggiatura, il film non racconta solo una storia da cronaca nera ma diventa una fotografia di un Paese e del suo costume. Perfetta, peraltro. Di più non vi diremo, un po’ per la consueta speranza che andiate a cercarvi questo film accettando il nostro suggerimento, un altro po’ perché il colpo scena del film (che non intendiamo rovinarvi) funziona come uno specchio davanti al quale è bene restare da soli. E riflettere. La giustizia o la propria idea di essa? Cosa deve prevalere? Questo finiremo per chiederci. Quel che è certo è che Risi consegna nelle mani di due fuoriclasse l’eterna lotta fra due maschere della civiltà occidentale, l’onesto e il furbo e quel labilissimo confine che divide il passo dell’uno da quello dell’altro.

di Cristiano Governa