DONNE CHIESA MONDO

Sguardi diversi

Le donne di Napoli e il culto dei vivi

La Casa Santuario di Santa Francesca delle Cinque Piaghe (facebook.com/ santamariafrancesca)
28 novembre 2020

Se c’è una strada per la salvezza di Napoli è una strada fatta dalle donne, per tradizione antica cancellate, dimenticate, calunniate dalla città stessa.

È per devozione che Maria Longo, in seguito beata, fonda nella Napoli spagnola del Cinquecento l’Ospedale degli Incurabili, destinato nei secoli seguenti ad essere faro della ricerca scientifica europea ma, in prima istanza, ad essere ospedale per tutti, anche per i poveri, ospedale per il parto e la follia, ospedale di donne per le donne, poiché ad assistere medici e chirurghi sono prostitute tolte alla strada.

È per devozione che, ai primi del Seicento, suor Orsola Benincasa mette insieme un resistente gruppo femminile, nonostante la città sia così ostile alle donne da condurre l’analfabeta Orsola alla tortura: la interrogano e la tormentano, dubitando della sua santità, lei che, come santa Maria Francesca delle Cinque Piaghe, era cresciuta fra i soldati spagnoli, fra violenze, carestie, epidemie e stupri. Eppure, a lei il viceré obbedisce, molti anni dopo la sua morte, edificando durante la peste del 1656 il convento che oggi è una delle più antiche università italiane.

E se si fa un salto in pieno Ottocento è ancora a una donna, Teresa Filangieri, filantropa e scrittrice, nipote di Gaetano Filangieri, filosofo e giurista, e figlia di Carlo, generale, che si devono, a Napoli, la cucina di strada durante il colera e il primo ospedale pediatrico d’Europa, il futuro Santobono.

Le donne sono sempre in prima linea e in anticipo sui tempi poiché pensano e sostengono che tutti debbano essere curati, anche i poveri, anche i bambini, che per ciascuno serve una giusta risposta.

Il Novecento a Napoli è una fila di scrittrici e donne impegnate contro la fame e l’ignoranza, da Matilde Serao, giornalista e editrice, che chiede a gran voce il risanamento della città, ad Anna Maria Ortese, voce altissima della letteratura e dell’etica, che ottiene
la chiusura dello scandaloso quartiere dei Granili, uno scempio di povertà e sporcizia, scrivendo l’indimenticabile capitolo de Il mare non bagna Napoli, mostrando a un’Italia ancora fragile e miope per la fine della guerra condizioni abitative disastrose; da Fabrizia Ramondino che, prima d’essere scrittrice è impegnata nella fondazione della Mensa Bambini Proletari, alla militante professoressa Vera Lombardi, perché, ricordiamolo, è a scuola che si formano le coscienze.

Le donne a Napoli, dove, che si tratti di colera, peste, camorra o covid, i problemi non mancano mai, sono una linea, un indirizzo, una certezza, rappresentano spesso il meglio di una fioritura letteraria, filosofica e artistica fra le più alte al mondo.

E nei giorni del covid non è stato diverso.

Anna Fusco, artista e commerciante, ha ereditato la più antica licenza di tabaccaio di Napoli, in piazza Trieste e Trento, nel cuore del centro storico: durante i mesi di lockdown, Anna, che pure soffre di asma e problemi polmonari, prende in mano l’eredità di Teresa Filangeri, che in pieno colera aveva portato tutte le nobildonne di Napoli a rimboccarsi le maniche dei ricchi vestiti e a cucinare in strada, perché le epidemie vengono anche dalla fame.

Anna cucina con tutta la sua famiglia piatti caldi, sostituisce le mense cittadine chiuse: a mangiare da lei vengono i senza tetto ma anche tante persone prive di famiglia e di sostegno.

Anna finisce sul «New York Times» per la sua ingegnosa e generosa iniziativa.

A raccontarlo per prima, però, è un’altra donna, Laura Guerra, da sempre impegnata nel sociale, giornalista della redazione napoletana di »Scarp’ de Tenis», giornale di strada in parte scritto e distribuito in numerose città italiane da homeless. Laura insegna scrittura nella sede della sua cooperativa e durante il lockdown registra a distanza un lavoro che non cessa, anzi si intensifica nella città che vive da sempre già in una complessa, stratificata emergenza.

Laura segnala il lavoro di Pina Tommasielli, medico di base, che offre test sierologici gratuiti agli insegnanti, che si occupa di prevenzione in quartieri periferici e difficili della città, Soccavo e Pianura e sottolinea che le donne si occupano di tutto in famiglia, delle malattie di tutti, del lavoro e del cibo di tutti, spesso trascurandosi. In fine, quando si ammalano, è troppo tardi: viene meno il motore della casa. Un motore che trascura di fare prevenzione per pensare sempre prima agli altri.

Laura racconta sul suo giornale della maestra Angela Parlato, insegnante da quarant’anni e attivista in numerosi centri sociali, che a Montesanto e nei Quartieri Spagnoli (quelli di Sant’Orsola Benincasa, gli stessi di Santa Maria Francesca delle Cinque Piaghe, perché i secoli sono passati ma i problemi restano, anche se in apparenza mutati) si occupa di portare un paniere a chi non può fare la spesa e la consegna a chi non può uscire di casa.

E si accorge, così, che la didattica a distanza nei bassi, antiche abitazioni cieche e asfittiche, ricavate al pian terreno e affacciate direttamente sulla strada, senza un computer o senza connessione, nelle famiglie dove un telefonino è diviso in quattro, funziona peggio di quanto non funzioni già male per tutti. Per questo la maestra Angela decide di far da ponte fra la didattica a distanza e i bambini delle case dove va a portare la spesa. Pasta, pomodori pelati, giga di ricarica e fotocopie: il paniere di Angela Parlato ha beni di diverso consumo e necessità.

Del resto, non avere connessione nei vicoli di Napoli, fra i muri del Cinquecento, è facile.

Intanto, le scuole nel caldo autunno del sud, a giorni alterni sconvolto dal cambiamento climatico, da piogge improvvise e trombe marine (le “tropee”), hanno riaperto fra la disperazione delle madri, il panico degli insegnanti e il costo, altissimo, economico e culturale, che la pandemia e le sue conseguenze hanno già generato: un prezzo che a Napoli e al Sud è più alto che altrove, che ha colpito imprese, negozianti, alberghi, teatri, cinema, scuole e università, che espone i più deboli.

Un’emergenza culturale gigantesca è dunque di nuovo e sempre in atto nella città dove da sempre l’educazione dei bambini è stato il problema delle donne, come scrivevano Matilde Serao, Anna Maria Ortese, Fabrizia Ramondino e ancora oggi dice, ripete, denuncia chi di noi lavora a stretto contatto con le scuole, coi ragazzi di ogni età, con gli insegnanti.

Alla Sanità, quartiere famoso per aver dato i natali ad Antonio de Curtis, in arte Totò, e per alcuni dei palazzi barocchi più incantevoli della città disegnati nel Settecento dall’architetto Ferdinando Sanfelice ma anche per terribili faide di camorra e per le “stese”, sparatorie che spesso coinvolgono comuni cittadini e di frequente bambine e bambini, da anni, per esempio, resiste Pina Conte, insegnante e imprenditrice, che impegnando tutto il patrimonio della sua famiglia, ha ristrutturato un palazzo antico dove si fa scuola per chi a scuola non sarebbe andato, dove si studia anche mandolino e musica, dove si imparano a fare costumi per il teatro. Dalle aule di Pina Conte sono usciti, ormai, lavoratori, professionisti, artisti che avrebbero potuto perdersi e finire con una pistola in mano.

C’è, insomma, chi non si ferma mai, anche nell’oblio del suo impegno, come Suor Giuseppina Esposito, per anni attiva al Binario della Solidarietà a Gianturco: Gianturco è quel quartiere mai nominato nei suoi romanzi ma che i lettori di tutto il mondo ormai attraversano leggendo Elena Ferrante, dove le emergenze sono continue.

C’è un mondo di donne devote a Napoli: devote alla cultura, alla saggezza, a buone pratiche sociali, a solidarietà senza chiacchiere e bandiere, spesso spontanea. E senza escludere gli uomini: penso a Peppino Sansone, giornalaio e libraio del quartiere Chiaia, che ha portato medicine e giornali a tutti i clienti e, nel giorno delle Palme, l’olivo benedetto alla porta di chi nemmeno se lo aspettava.

Chi viene la prima volta in città scopre una tradizione antica, che risale alla terribile peste del 1656, quando la città fu ridotta di due terzi in sei mesi e le persone morivano in strada, anche ventimila al giorno: scopre che i napoletani venerano teschi anonimi nel cimitero delle Fontanelle, gigantesco ossario ricavato in una delle cave di tufo alte come cattedrali che fanno di Napoli, dai tempi dei greci, una città di mare e luce in superficie e di caverne, piscine e acquedotti in profondità.

Alle “capuzzelle”, ovvero ai teschi ribattezzati con un nome, per i quali si inventano storie e cui si attribuiscono poteri (teschi che sudano, teschi che appartengono a capitani di nave, teschi di morti che, se offesi, tornano a vendicarsi, teschi di giovani spose cui chiedere la grazia della gravidanza o di un felice matrimonio), i napoletani sono stati per lunghi secoli devoti: durante la peste seicentesca a migliaia si nascosero i corpi dei morti sotto le strade, si calcificarono fosse comuni con su scritto «tempore pestis: non aperiatur», si consegnarono parenti in agonia ai seggiari, becchini reclutati fra i detenuti che portavano via i cadaveri ma anche i vivi.

Poi, in un giorno d’agosto, dopo un grande acquazzone i morti vennero fuori dal Chiavicone, la grande fogna che scorre sotto la città; caddero anche dei palazzi. La devozione per i morti iniziò in quell’anno, o meglio, prese una forma speciale, frutto di un enorme dolore, di un senso di colpa, della colpa di essere rimasti vivi.

Mai come oggi serve la devozione per i vivi.

Una devozione per la vita, che è fatta di pasti, di cure ma anche e soprattutto di cultura: le donne a Napoli lo sanno, lo hanno sempre saputo. E non se ne dimenticano.

di Antonella Cilento


L’autrice

Nata a Napoli nel 1970. Finalista Premio Strega nel 2014 con Lisario o il piacere infinito delle donne (Mondadori), ha pubblicato numerosi romanzi, raccolte di racconti, reportage storici. Dirige dal 1993 una delle più antiche scuole di scrittura italiane, Lalineascritta Laboratori di Scrittura (www.lalineascritta.it) e coordina il primo master di scrittura e editoria del Sud Italia, Sema, con Università Suor Orsola Benincasa. Dirige da dodici anni la rassegna di letteratura internazionale Strane coppie. Scrive per il teatro e La Repubblica - Napoli.