Nel libro di Santiago H. Amigorena

Un ghetto senza muri

Sala dei Nomi dello Yad Vashem a Gerusalemme
14 ottobre 2020

Tacere. Dinanzi a ciò che non si conosce o anche solo si sospetta come indicibile non resta che il silenzio. Se non si hanno le parole giuste è difficile persino pensarle certe cose. Ed è più facile rimuoverle. Così il silenzio diventa un muro protettivo, ma anche una prigione dalla quale è difficile fuggire se quel tacere è l’unica pena possibile per il rimorso. Perché è il rimorso che stritola come in una morsa l’ebreo polacco Vicente Rosemberg, emigrato in Argentina nel 1928, quando comincia ad apprendere cosa accade nell’Europa in mano ai nazisti e in particolare agli ebrei nella sua Polonia, sapendo che tra loro ci sono la madre, la sorella e il fratello. Vicente, che in Argentina si è felicemente sposato ed è padre di tre figli, avrebbe potuto farli venire a Buenos Aires quando forse ancora era possibile, ma non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto insistere, soprattutto con la madre, la più restia partire. E ora è troppo tardi.

Nonostante siano passati ormai ottant’anni, non è però troppo tardi per Santiago H. Amigorena, nato in Argentina ma francese d’adozione, raccontare la drammatica storia del nonno Vicente  in un libro dal significativo titolo Il ghetto interiore  (Vicenza, Neri Pozza, 2020, pagine 144, euro 18), un intenso romanzo biografico sul rapporto tra colpa e negazione, ma anche sull’importanza della parola e del suo potenziale catartico.

Nei primi mesi di guerra le notizie che giungono in Argentina da oltreoceano sono scarse, frammentarie. L’Europa è lontana. I giornali locali riportano ogni tanto notizie di uccisioni sommarie, di deportazioni, ma le relegano alle pagine interne; sembrano quasi dar loro poco credito, tanto i fatti appaiono abominevoli. E in effetti anche Vicente e la sua cerchia di amici, anch’essi emigrati, fanno fatica a prenderle sul serio.

Ma nell’autunno del 1941  dal ghetto di Varsavia giunge dalla madre una lettera dai toni allarmati. Poche righe che confermano almeno in parte le notizie di stampa. Parlano di gente che muore di fame in strada, di malattie, di disperazione dilagante, di deportazioni, di violenze gratuite da parte dei nazisti e dell’impegno impari del fratello medico per cercare di alleviare le sofferenze di chi è rinchiuso nel ghetto.

Malgrado queste informazioni, Vicente, come la maggior parte degli ebrei del mondo, non riesce a immaginare ciò che sta accadendo realmente e che avrebbe saputo solo in seguito. Non sa delle migliaia di persone assassinate ogni giorno con un colpo alla testa o chiuse nelle camere a gas, dei  cadaveri bruciati nei crematori. Tuttavia, da quando ha cominciato a intravedere qualcosa, si sente «sempre più ebreo», senza tuttavia che ciò riesca a consolarlo o a rassicurarlo. Infatti la prima reazione è quella di evitare di leggere i giornali e di parlare con gli amici della guerra, della Polonia e dei suoi familiari. E mentre da una parte prende coscienza come mai prima dell’appartenenza a un popolo, con il passare dei mesi il suo fuggire dalla realtà si trasforma in un isolamento fatto di silenzio. Fuori e dentro casa.

Quello a cui aspira è «un silenzio così profondo, così continuo, così insistente, così ostinato, che tutto sarebbe diventato lontano, invisibile, inudibile — un silenzio così tenace che tutto si sarebbe disperso in un pulviscolo di neve». Del resto, al di fuori del lessico tecnico-burocratico degli aguzzini — “impianti speciali” per definire le camere a gas, “trattamento speciale” la somministrazione letale del gas — ciò che accadeva in Europa per anni non ha avuto un nome.

La vita di Vicente diventa dunque una fredda, svogliata, silenziosa routine: partite di poker tirando l’alba, dormite fino al primo pomeriggio; poi un caffè, qualche attenzione alla moglie, un bacio ai figli di ritorno da scuola, un salto al negozio di mobili di famiglia affidato a un commesso. Parole, il minimo indispensabile. Tutto come se persino la più piccola considerazione verso un altro essere umano — e i familiari non fanno eccezione — fosse un insulto, anche se non sa bene a cosa: probabilmente alla madre. La cui ultima, drammatica, lettera chiude definitivamente ogni spiraglio di speranza. Da allora «Vicente non avrebbe mai più detto una parola né a sua moglie, né ai suoi figli, né a nessun altro».

Con Il ghetto interiore  Amigorena disegna il ritratto intimo e dolente di un uomo che credeva di aver trovato un posto nel mondo, ma che improvvisamente è chiamato a fare i conti con la propria coscienza. Un romanzo che spiega il senso di colpa e la vergogna provata da molti di quanti  sfuggirono alla Shoah e scelsero il silenzio come unica possibilità per continuare a vivere. Ma per Amigorena probabilmente c’è anche dell’altro, qualcosa di ancor più personale. Il nonno Vicente lasciò l’Europa a causa dei nazisti, i suoi genitori seguirono un percorso inverso abbandonando l’America Latina per fuggire dalle dittature d’oltreoceano. Forse questo libro è per l’autore un tentativo per confrontarsi definitivamente con il proprio passato.

di Gaetano Vallini