L’attenzione della comunità internazionale sugli effetti della marcata polarizzazione politica

Timori per il voto in Bolivia

An indigenous woman looks at the 16 de Julio market in El Alto, Bolivia, on October 15, 2020, ahead ...
17 ottobre 2020

Domenica 18 ottobre 7,3 milioni di boliviani voteranno per avere un nuovo presidente che, presumibilmente, governerà il Paese fino al 2025, anno in cui ricade il bicentenario della nascita della Bolivia. Verrà eletto anche il vice presidente e saranno rinnovati i membri dei due rami del Parlamento. La campagna elettorale si è conclusa giovedì. Per vincere al primo turno, l’aspirante presidente dovrà ottenere la maggioranza assoluta o raggiungere più del 40% delle preferenze con uno scarto di almeno 10 punti sul secondo.

Rimane fragile il contesto istituzionale  e in essere i significativi squilibri politici a distanza di un anno dalle controverse elezioni del 20 ottobre 2019, che portarono dopo pochi giorni alla rinuncia dell’ex presidente Evo Morales, accusato di brogli. E successivamente alla formazione, il 12 novembre, di un governo di transizione guidato dalla senatrice Jeanine Áñez di Unidad democratica (Ud). La nomina ad interim di Áñez avvenne nonostante le sedute di Camera e Senato non raggiunsero il quorum necessario, dopo che il presidente Evo Morales, rinunciando alla presidenza, si rifugiò in Messico, per poi chiedere e ottenere asilo politico in Argentina.

Il risultato elettorale dovrebbe, dunque, mettere fine alla fase di transizione, costituzionalmente prevista solo per la convocazione e l’organizzazione di nuove elezioni. Ma la pandemia ha allungato notevolmente i tempi per la programmazione del voto che in questi mesi ha subito per ben due volte uno slittamento di data. Il paese andino ha fatto fin qui registrare 139.562 casi di coronavirus e ben 8.439 decessi per il covid-19.

Dell’iniziale elenco di 8 candidati, sono cinque quelli rimasti in lizza, e solo tre di loro, secondo i sondaggi, possono realisticamente aspirare all’eventuale secondo turno: Luis Arce, Carlos Mesa e Luis Fernando Camacho. Alcune formazioni politiche nelle ultime settimane hanno deciso di lasciare la corsa alla presidenza, tra cui anche Áñez stessa, e appoggiare Carlos Mesa di Comunidad Ciudadana, già presidente della Bolivia dal 2003 al 2005. L’obiettivo comune del fronte anti Mas, dunque, è quello di lanciare con forza la sfida a Luis Arce, il candidato del Movimento al socialismo, il partito dell’ex presidente Evo Morales, portandolo al ballottaggio, previsto a novembre. Stando ad alcuni sondaggi Arce, ex ministro dell’economia con Morales, potrebbe superare lo sbarramento del 40%, ma non riuscirebbe a totalizzare quei 10 punti di vantaggio proprio su Mesa, che viene dato tra il 32 e il 34 per cento. Dopo Arce e Mesa gli analisti danno Camacho, il più grande oppositore di Morales e leader di Creemos, tra il 12 e il 18 per cento. In caso di secondo turno, quindi, Mesa avrebbe serie possibilità di vittoria.

La paura che possano scaturire proteste e ripetersi gli scenari drammatici di violenze e scontri vissuti alla fine di ottobre 2019,   qualunque sia l’esito del voto, è vibrante nel Paese. Circa 32.000 tra agenti di polizia e soldati sono stati mobilitati per assicurare il normale svolgimento delle elezioni, per proteggere i seggi elettorali e il trasferimento degli «atti elettorali», in coordinamento con i rappresentanti del Tribunale supremo elettorale e i tribunali elettorali dipartimentali. La presenza della polizia sarà particolarmente rafforzata nella città di Cochabamba e nelle province di quel dipartimento.

Un clima di tensione e confronto politico che è andato via via acuendosi in questi mesi. Lo hanno riconosciuto nei giorni scorsi, in una nota congiunta, la Conferenza episcopale boliviana, l’Unione europea e le Nazioni Unite, attive nella loro azione di monitoraggio del processo elettorale. Nella nota Ue, Onu ed episcopato boliviano chiedono «urgentemente a tutti gli attori politici, in particolare ai candidati, ai loro militanti e sostenitori, di contribuire al clima di pace e tolleranza che deve prevalere in questo momento cruciale e storico per la vita democratica del Paese», aggiungendo che «con la violenza non sarà possibile risolvere le grandi sfide della democrazia boliviana. La capacità di dialogo e accordo dovrebbero essere lo strumento primario affinché, in un’atmosfera di unità e rispetto, si possano risolvere i conflitti e superare la polarizzazione politica».
In questa situazione la presenza della comunità internazionale è più importante che mai perché possano svolgersi elezioni inclusive, credibili e democratiche in un clima di pace, che, come sostenuto dal segretario generale dei vescovi, monsignor Aurelio Pesoa, aiuta a «discutere le idee e non squalificare le persone. Guidare processi di cambiamento e non solo cambiamento dei governanti».

La nuova forza di governo dovrà combattere la povertà, ancora tra i livelli più alti nella regione latinoamericana, e permettere alla popolazione di percepire progresso, giustizia, qualità dell’istruzione e salute per tutti come elementi fondanti della propria politica. Nell’ultimo decennio, sotto la presidenza Morales, la Bolivia ha comunque compiuto notevoli miglioramenti in materia di sicurezza alimentare e di riduzione della povertà estrema. Tuttavia il progresso, in particolare nelle aree più vulnerabili, dipende ancora dal futuro dei ricavi di petrolio e gas, che dal 2016 sono drasticamente diminuiti. E in prospettiva dai proventi che arriveranno dall’industrializzazione del litio, il cosiddetto “oro bianco”.

di Fabrizio Peloni