Memoria liturgica del gesuita Alfonso Rodriguez

Il santo fratello portinaio

Francisco de Zurbarán, «Visione di sant’Alfonso Rodriguez» (1630)
31 ottobre 2020

Alfonso Rodriguez nacque intorno al 1531, a Segovia, e iniziò i suoi studi ad Alcalá de Henares nel 1544, ma quando suo padre morì due anni dopo, dovette rilevare l’azienda di famiglia di lana e stoffe in una casa molto vicina al famoso acquedotto romano. Si sposò nel 1558 ed ebbe almeno due figli. La vita gli sorrise, ma nove anni dopo l’azienda di famiglia era andata in rovina e i suoi figli, la moglie e la madre erano morti.

Come Giobbe, non si lasciò sopraffare dalla sfortuna e poté ricostruire la sua vita con l’aiuto del rettore gesuita di Segovia. Cercò di entrare nella Compagnia, ma subì un altro fallimento, non essendo stato ammesso a causa della sua salute debole, dei suoi molti anni (più di 37) e dei suoi pochi studi. Non si arrese e seguì il rettore, suo compagno spirituale, a Valencia, dove riprese gli studi. Nel 1570, dopo un periodo da eremita a Castellón, chiese di essere ammesso come sacerdote o fratello, e il provinciale si pronunciò contro il parere negativo degli esaminatori: «Accogliamolo come santo, perché con la sua vita e la sua preghiera farà molto bene a tutti noi».

Entrò nella Compagnia il 1° gennaio 1571 e in agosto partì per Palma di Maiorca, dove trascorse il resto della vita. Lì fece i suoi ultimi voti il 5 aprile 1585 ed esercitò l’ufficio di sacrestano e di portinaio, finché nel 1615 fu costretto a letto dalla malattia. Morì il 31 ottobre 1617.

L’ufficio di portinaio era una posizione di grande fiducia e responsabilità, poiché era il primo volto pubblico della comunità. Si occupò di molte e varie persone, tra cui il viceré, e fu una guida spirituale per altri, come san Pietro Claver.

Il suo segreto fu un’intensa vita interiore di preghiera e di ascetismo, che lo portò a grandi esperienze mistiche. Per ordine del suo rettore, le descrisse a partire dal 1604 nella Memoria di alcune cose che accaddero a quella persona. Nel suo necrologio sono evidenziate la sua povertà, la sua penitenza e il suo senso dell’obbedienza, così come la sua vita spirituale e di preghiera e le sue particolari devozioni a Gesù, a Maria e agli angeli.

Cercava di etichettare ciascuno con la virtù in cui eccelleva (il saggio, l’umile, l’operoso) e cercava di scoprire Cristo in tutti coloro che bussavano alla sua porta.

Due anni dopo la sua morte, iniziò il processo di canonizzazione, che fu interrotto dall’espulsione dei gesuiti dalla Spagna (1767) e dalla successiva soppressione papale della Compagnia di Gesù (1773). Fu proclamato santo da Leone xiii il 15 gennaio 1888, insieme al suo discepolo Pietro Claver e al giovane gesuita belga Giovanni Berchmans. Per l’occasione il grande poeta inglese, il gesuita Gerald Manley Hopkins, gli dedicò un sonetto.

Sant’Alfonso era un religioso non sacerdote, come è oggi per oltre l’80 per cento dei membri della vita consacrata, comprese le congregazioni femminili. Non così nella Compagnia di Gesù, dove la percentuale di fratelli è inferiore al 7 per cento, anche se in paesi come la Spagna è superiore al 16 per cento.

La Compagnia è nata con un gruppo di sacerdoti laureati a Parigi, che si sono messi a disposizione del Papa per essere inviati dove egli ritenesse più opportuno. Ma già nel 1536, a Venezia, prima della bolla di fondazione (1540), il primo laico si unì al gruppo: Esteban de Eguía, anche lui vedovo. Altri “servi” lo seguirono, e nel 1546 furono incorporati nell’ordine come coadiutori spirituali e temporali, per aiutare nei compiti spirituali o materiali i gesuiti professi a svolgere la missione della Compagnia.

Il profilo del coadiutore temporale era caratterizzato molto da un senso di “utilitarismo” in continuità con i dipendenti laici, poiché le sue occupazioni erano lavori «umili e bassi». Questo schema era fissato nelle Costituzioni, in quello che fu chiamato “il destino di Marta”, anche come riflesso di una società rigidamente strutturata. Ai coadiutori spirituali era concesso un certo apostolato, ma una delle regole, che è stata abrogata solo nel 1995, stabiliva che «non devono imparare più lettere di quante ne sapessero quando sono entrati».

Sant’Alfonso incarnò eroicamente questa figura, e molti confratelli hanno dato la vita come anonimi servitori nelle case, cucine, lavanderie, portinerie, giardini... anche se altri hanno fatto lavori più qualificati come architetti, pittori, botanici, insegnanti, procuratori... Basta citare i pittori Andrea Pozzo e Giuseppe Castiglione, o il botanico Georg Joseph Kamel (che ha dato il suo nome al fiore della camelia).

Con il concilio Vaticano ii, la Compagnia ha intrapreso un cambiamento di mentalità cominciato nella 31a congregazione generale e sviluppato nella 34a: «Abbiamo tutti la stessa missione, condivisa da sacerdoti e fratelli». Da ciò consegue che non ci sono più esecutori della missione e assistenti.

Oggi i fratelli sono religiosi laici professionisti che partecipano alla missione della Compagnia, al servizio del Regno di Dio, per la quale svolgono, secondo la loro capacità e preparazione, un’ampia gamma di compiti, a eccezione di quelli strettamente sacerdotali: promotore vocazionale, direttore del Jesuit Refugee Service Europa, assistente del maestro dei novizi, socius e ammonitore del provinciale, consultore provinciale, insegnante (anche di teologia), catechista, diacono, manager, direttore-amministratore, tecnico, servizio/uffici interni etc.

Tutti noi gesuiti, sacerdoti e fratelli, dobbiamo lasciarci impressionare dal modello di prontezza, disponibilità e umiltà che sant’Alfonso assume: «(...) se sei un portinaio e suona la campana, vai prontamente alla chiamata del tuo Dio, e poi alza il tuo cuore al tuo Dio, e di’: “Vengo, Signore, e ti apro il mio cuore, Signore, per amor tuo”; agendo e rallegrando il cuore all’amore di Dio: e aprendo la porta, fai capire che apri la porta a Dio che stava aspettando».

di Wenceslao Soto