Sempre più precarie le condizioni di vita della minoranza etnica musulmana

Rohingya dimenticati

Ragazzi nel campo di Kutupalong in Bangladesh. I rohingya sono la minoranza più perseguitata al mondo secondo l’Onu (Afp)
30 ottobre 2020

Non conoscono sosta le sofferenze della minoranza etnica musulmana dei rohingya, il popolo che nessuno vuole.

A più di 3 anni dalla disperata fuga dal Myanmar — a causa delle ripetute violenze perpetrate nei loro confronti dai militari governativi — i rohingya vivono ancora in condizioni disagiate in insediamenti sempre più affollati all’interno del distretto di Cox’s Bazar, in Bangladesh, il campo profughi più grande del mondo.

Sono quasi 900.000 i rifugiati rohingya che sono stati costretti a lasciare il Myanmar. La maggior parte, circa 750.000, sono fuggiti durante la crisi più recente, nell’agosto del 2017. Si stima, invece, che 600.000 vivano tuttora nello Stato nordoccidentale del Rakhine, in Myanmar, tra enormi difficoltà.

Durante l’ultima conferenza dei donatori, l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha sottolineato come la comunità internazionale e i Paesi della regione non soltanto debbano continuare ad assicurare supporto ai rifugiati e a chi li accoglie, ma adattare gli interventi alle nuove esigenze fondamentali e ampliare la ricerca di soluzioni. Il fulcro di tale ricerca deve mirare al conseguimento del ritorno volontario e in condizioni sicure, dignitose e sostenibili dei rifugiati rohingya e delle altre persone in fuga alle proprie case o in luoghi di loro preferenza in Myanmar.

La maggior parte dei rohingya vive ai margini della società ed è necessario assicurare loro accesso ad assistenza sanitaria di base, acqua potabile, scorte alimentari affidabili, oppure significative opportunità di lavoro ed educative. La pandemia di covid-19 ne ha peggiorato le condizioni di vita, rendendo l’accesso ai servizi ancora più difficoltoso. Inoltre, ha esacerbato gli effetti di altre malattie.

La responsabilità di creare i presupposti che favoriscano il ritorno in condizioni sicure e sostenibili dei rohingya, ha indicato l’Unhcr, spetta alle autorità del Myanmar. Tale processo dovrà comportare il coinvolgimento della società intera, l’avvio e la promozione del dialogo tra le autorità del Myanmar e i rifugiati rohingya e l’adozione di misure che contribuiscano a cementare sicurezza e fiducia reciproca. Tra queste vi sono la necessità di revocare le restrizioni alla libertà di movimento, permettere ai rohingya sfollati di fare ritorno ai propri villaggi nel Rakhine e istituire un iter effettivo per poter acquisire la cittadinanza del Myanmar.

Di discendenze persiane, turche e bengalesi, i rohingya abitano il territorio del Rakhine — uno degli Stati più poveri della regione — a partire dal viii secolo. Nonostante ciò, per il governo di Naypyidaw sono immigrati irregolari e non rientrano ufficialmente nelle 135 etnie che compongono il Myanmar. Apolidi a tutti gli effetti, dunque, senza alcun diritto, né di lavoro, né di studio, né di accedere ai servizi sanitari di base e senza la libertà di praticare la propria religione, con ulteriori restrizioni che impediscono loro di spostarsi legalmente. Quelli che sono rimasti vivono in campi-ghetto, che non possono lasciare senza il permesso del governo. Per ottenere la cittadinanza, devono dimostrare di avere vissuto in Myanmar da almeno 60 anni, pratica pressoché impossibile. Quindi sono qualificati come immigrati che vivono illegalmente nel Paese.

Vittime di omicidi di massa, stupro, tortura e distruzione sistematica delle case e dei luoghi di culto, i rohingya sono considerati dalle Nazioni Unite una delle minoranze etniche più perseguitate al mondo. E, secondo l’Unhcr, nei loro confronti è in atto un vero e proprio genocidio, come appare dall’evidente intenzione dei militari del Myanmar di distruggere, in tutto o in parte, questa minoranza etnica. Sono drammatici i racconti dei sopravvissuti alle violenze dei soldati e delle forze di sicurezza. Viene riferito di interi villaggi rasi al suolo o bruciati e di inaudite violenze contro donne e bambini. Lo scopo non dichiarato — accusano tramite dettagliate testimonianze le organizzazioni internazionali in difesa dei diritti umani — è quello di “liberare” il Rakhine dalla presenza della comunità musulmana. Minoranza rispetto al resto del Myanmar, quasi totalmente buddista. Gli attacchi vengono effettuati quasi prevalentemente di notte, spesso lanciati con l’ausilio di elicotteri che dall’alto mitragliano le capanne mentre la gente è nel sonno. Poi, da terra arrivano i militari, che uccidono e bruciano tutto.

Per chi riesce a sopravvivere non resta altro da fare che fuggire — spesso a bordo di fatiscenti imbarcazioni, in molti casi con esiti fatali — nel vicino Bangladesh. Dove però la situazione non è delle migliori. I campi di accoglienza sono infatti ormai pieni all’inverosimile, al limite del collasso, dove anche per un solo pugno di riso scoppiano violente risse. E le condizioni igienico-sanitarie continuano a peggiorare. Nel tentativo di abbandonare uno Stato che non li riconosce, molti rohingya hanno anche provato a cercare riparo verso altri paesi vicini, ma spesso Malaysia, Thailandia e Indonesia hanno respinto gli arrivi.

Due anni fa, le autorità del Myanmar e del Bangladesh hanno raggiunto un accordo bilaterale per il rimpatrio dei rohingya. Ma secondo l’Onu tale rimpatrio potrà avvenire solo quando le condizioni in Myanmar saranno sicure per chi intende rientrare e ai rohingya sia conferita la cittadinanza. Un dato di fatto che al momento sembra del tutto da escludere. Ad oggi, quindi, nel caos di una diplomazia internazionale che non riesce a intervenire in modo concreto, non si intravede alcuna soluzione per porre fine alle inaudite sofferenze dei rohingya. Un muro di indifferenza, che spesso fa chiudere gli occhi ai governi occidentali, probabilmente molto più interessati agli affari e alle tante materie prime che il Myanmar offre.

di Francesco Citterich