In Iacopone da Todi

«Fugio la croce che me devura»

Nel cortometraggio di Pasolini «La Ricotta» (1963) la scena della Deposizione, ispirata al quadro del Pontormo, comincia con il «Pianto della Madonna» di Iacopone da Todi
29 ottobre 2020

In definitiva sappiamo molto poco della vita di Iacopone da Todi, «uno dei più arroventati mistici che si conoscano. E, certo, il più grande poeta italiano dopo Dante e qualcun altro» (Domenico Giuliotti). Nato tra il 1230 e il 1236 a Todi e morto nei pressi della cittadina umbra presumibilmente nel 1306, avrebbe svolto una professione giuridica fino alla conversione del 1268. Dopo dieci anni di vita solitaria, penitente e randagia, entra nell’ordine francescano nel 1278. Schieratosi a favore dei Colonna contro Bonifacio viii viene imprigionato dopo la resa di Palestrina e ricondotto a Todi per scontare il carcere nei sotterranei del convento di San Fortunato. Liberato da Benedetto xi dopo il 1303, rimane nei pressi della cittadina natale fino alla morte.

Enrico Menestò, autorevole promotore delle ricerche sul poeta tuderte, torna a informarci sulla vita e l’agiografia di Iacopone con due saggi inseriti nello splendido volume edito dal Centro italiano di studi sull’alto medioevo, curato dallo stesso Menestò insieme a Massimiliano Bassetti.

Il titolo della raccolta saggistica è il verso iniziale della lauda lxxv: «Fugo la croce che me devura» dove dialogano due religiosi, l’uno più giovane che inneggia alla gioia della scoperta dell’amore di Cristo e l’altro, più maturo, ben consapevole degli sconvolgimenti che l’attrazione verso il Figlio di Dio ha comportato e comporta nella vita reale.

Qualcosa della vita del poeta sappiamo dalle laudi autobiografiche, esaminate da Matteo Leonardi e mosse dall’intento edificante di rappresentare un esempio di consegna alla radicale spogliazione di ogni ricchezza umana, anche quella intellettuale. La salvezza viene dall’umiliazione non dalla esaltazione del talento individuale, qualunque esso sia.

Tuttavia proprio le stesse laude autobiografiche che hanno contribuito ad accrescere il mito agiografico del “folle” di Dio sono in verità finemente tramate di richiami alla lirica sacra e profana di quei decenni, in un equilibrio straordinario in cui consiste il vigore e la forza radicale dei versi iacoponici. Il volume, proseguendo una lunga tradizione di studi, riflette su questi intensi legami e, ancora una volta, si interroga sul silenzio assoluto di Dante Alighieri sull’opera di Iacopone, nonostante li accomuni l’aspra polemica contro Bonifacio viii e non pochi altri argomenti poetici e religiosi.

Vexata quaestio riguarda «uno dei più popolari testi poetici religiosi mediolatini, soprattutto per il suo impiego liturgico», lo Stabat Mater dolorosa. Ne discute Emore Paoli che, con un’impeccabile lezione di metodo, riassume le diverse posizioni critiche sulla attribuzione della laude, rilegge con precisione e vasta cultura la tradizione manoscritta del testo, avanzando plausibili ipotesi sulla base della ricognizione storica e di un efficace discorso sulla poetica e sullo stile delle laudi in volgare di sicura attribuzione iacoponica incentrate sul planctus di Maria.

Tra queste la celebre Donna de Paradiso nella quale il dolore che si «accenne» e la finale richiesta della Madonna di morire sulla stessa croce unita al Figlio «è una conclusione del tutto diversa da quella dello Stabat Mater»; l’obiettivo di Iacopone «non è quello di ribadire il valore salvifico della Croce, che dà per scontato, ma quello di proporre il valore esemplare di Maria». Il tono diffuso di compostezza serena e accorata attribuito allo Stabat Mater non è quello di Iacopone secondo le approfondite analisi tematiche e stilistiche di Paoli che indica, in conclusione, come si debba cercare fuori dalla cerchia francescana per individuare l’autore del celebre inno mariano, concentrando l’attenzione «in primo luogo sugli scrittori cistercensi e certosini attivi tra la metà del xiii secolo e i primi due decenni del xv».

Non escludendo di indagare nell’ambiente domenicano che svolge un ruolo primario nella diffusione della “laude” nell’ambito delle processioni devozionali.

La meraviglia dell’incrocio tra effimero ed eterno è offerto da Maria in tutti i momenti della sua esistenza, dalla vicinanza concretissima nella fanciullezza e adolescenza di Cristo fino al distacco degli anni della predicazione e della Passione come narra poeticamente la ii laude, in cui Iacopone si chiede come facesse una ragazza di soli quindici anni a «non morire d’amore» nella condizione di madre del suo stesso Creatore: «O Maria, co facivi, quanno tu lo vidivi? / Or co non te morivi de l’amore affocata? / Con non te consumavi quanno tu gli guardavi, / che Deo ce contemplavi ‘n quella carne velata? / Quann’esso te sugìa, l’amor co te facìa, / la smesuranza sia esser da te lattata?».

Esmesuranza è espressione frequentissima nelle laudi e definisce la sproporzione tra l’offerta dell’amore di Dio e la capacità di comprendere della creatura umana. L’amore per Dio e per suo Figlio non è conseguenza di un atto di volontà ferrea ed è meno che mai meritato, si legge nell’intervento di Alvaro Cacciotti. Si tratta di un amore donato capace di trasformare ogni precedente forma di vita; in questa ottica Iacopone non insegue un ordine morale, ma descrive la «reale dinamica dell’incontro con l’Altro».

E nella rinnovata intuizione figurativa dell’incontro evangelico, che proprio in quei decenni acquista rilievo innovativo grazie a san Francesco e ai cicli giotteschi, l’iconografia devozionale ritrae la singolare figura del poeta tuderte, per lo più smagrito, con il saio francescano consumato, intento alla preghiera o alla contemplazione mistica, come riferisce Mirko Santanicchia.

La maggior parte delle immagini del beato corredano le edizioni a stampa delle Laudi, con tre eccezioni molto diverse tra loro quali il celebre dipinto di Paolo Uccello nel duomo di Prato (1435) e i più antichi ritratti di due chiese di Todi, San Silvestro e San Fortunato. Immagini da cui è possibile trarre un articolato discorso sulla fortuna della personalità di Iacopone nei secoli successivi alla morte, ma che non mancano di suggestionare artisti contemporanei del calibro di Sironi, Dorazio, Cagli, Giacomo Manzù (illustra le edizione delle Laudi per le edizioni Uomo, 1945) e un giovanissimo Giovanni Testori (sempre nel 1945, illustra una scelta di Laudi per la Gorlich) che si rivolgono a Iacopone per esprimere con tratti figurativi originali una dolente pietas non priva della tenue luce della speranza cristiana nei confronti dell’uomo vilipeso e lacerato dalle atrocità del conflitto mondiale.

di Fabio Pierangeli