«L’eredità dei vivi» di Federica Sgaggio

Come arrivederci una passata di rossetto rosso fuoco

Particolare dalla copertina
29 ottobre 2020

Cara Giulia, mi capita spesso di incominciare i romanzi dalle ultime pagine. Non è un modo brutale di voler conoscere il finale ma un espediente per valutare il peso di un romanzo. L’eredità dei vivi di Federica Sgaggio (Venezia, Marsilio, 2020, pagine 288, euro 16,15) mi ha scosso e commosso. Non saprei come inquadrarlo, se come un diario, un’autofiction, una lettera aperta alla propria madre o più probabilmente alla propria coscienza ma è certamente un romanzo che merita di essere letto dalla prima all’ultima parola.

Cara Flaminia, sono pienamente d’accordo con te. In fondo questo libro può essere letto in molti modi, tutti quelli che hai accennato, ma è soprattutto nella qualità della scrittura che sta la sua forza. La storia, in sé, somiglia a tante storie che conosciamo, anche se ognuna è sempre originale. È nel farne racconto che l’uso delle parole le consegna alla letterarietà.

Flaminia: La trama è semplice, una famiglia del Sud, la famiglia Sgaggio, di Solofra in provincia di Avellino, alla fine degli anni Cinquanta si trasferisce in Veneto per motivi di lavoro. La voce narrante è quella dell’autrice Federica Sgaggio, che ripercorre decenni di vita veneta e della sua storia familiare, soprattutto attraverso la potente figura della madre, Rosa, venuta a mancare da poco. È proprio intorno a Rosa che ruota tutta la vicenda, Rosa è una donna indomita che ha conservato tutta la fierezza della sua terra d’origine pur non provando alcuna nostalgia del meridione. A modo suo si sente veneta e in quella patria nuova si è integrata perfettamente anche se sorride ironica di fronte a certi modi di fare e di dire di quella gente.

Giulia: C’è un elemento di rottura però nella loro vita, la tragedia che spezza la vita di Rosa è la nascita di un secondo figlio con disabilità. Avrebbe, forse, preferito perderlo ma giacché è sopravvissuto, lei lo ama e lo cresce con una forza leonina. La sua particolare condizione le apre versanti di lotta, rivendicazioni sociali, la impegna totalmente. Nella dedizione di Rosa al figlio è assente il ripiegamento sull’infelicità, il lamento, il sentirsi vittima. Resta sempre in piedi, pronta a sfidare il mondo per i diritti in cui crede.

Flaminia: La disabilità del fratello si trasforma infatti presto in una sfida per Rosa, in una condizione anche perturbante per la narratrice e in un problema per il padre. La figura del capofamiglia è messa in discussione, è lui l’anello debole della storia, è lui ad abbandonare la nave e poi farne ritorno all’improvviso. Rosa è ancora lì ad aspettarlo, sempre forte come una roccia a cui aggrapparsi mentre lui appare sempre più fragile.

Giulia: Ci sono nel libro delle espressioni di vera poesia. Per esempio quando l’autrice parla del modo di sedersi della madre, sempre sull’orlo di una sedia, «provvisoria in tutto». Sono gli aspetti fragili di Rosa che la figlia, adulta, riesce a cogliere a pieno in questo scritto che è un congedo, una cerimonia degli addii, un tributo di amore.

Flaminia: L’autrice traccia in filigrana le due facce di un’Italia ancora profondamente divisa e distante, impreparata a gestire situazioni difficili come la loro. Da un lato un Paese in crescita economica, dall’altro un contesto impreparato a gestire i “terroni” e gli “sfigati”, le persone con disabilità e anche le loro famiglie. L’autrice a scuola è Federica ma sempre accompagnata dall’aggettivo «poverina», per via del fratello

Giulia: Nel suo narrare l’autrice recupera scampoli di vita della madre, frammenti di un’età in cui lei non era nata, la giovinezza di Rosa a Solofra, un luogo pieno di parenti, di allegria, di primi amori. Uno, ne è certa, è rimasto per Rosa indimenticato, l’uomo che lei chiama Gregory Peck. La madre ha continuato a esserne innamorata e forse anche lui, Gregory Peck perché nel funerale a Solofra, lo hanno visto, muto, assorto, partecipare al rito.

Flaminia: Torniamo alle osservazioni da cui eravamo partite: l’abilità di Sgaggio nella narrazione. Usa il tempo misto, un va e vieni tra presente e passato, abbatte ogni cronologia e, come un prestidigitatore, tira fuori dal cilindro frammenti di vita, episodi minimi, particolari apparentemente neutri che però si caricano di significati potenti. Come l’ultimo bacio impresso sul volto della madre con rossetto Chanel rosso fuoco.

di Giulia Alberico
e Flaminia Marinaro