L'avventura della fede - Barnabiti e non solo nella storia missionaria in Afghanistan

Non v’è opera grande senza sacrifici

Egidio Caspani con un diplomatico
27 ottobre 2020

In quella chiamata del Papa, Egidio Caspani riconobbe la volontà di Dio. Missionario barnabita brianzolo, uomo dalla personalità schiva, di poche parole ma di assodata tenacia, Caspani aveva subito intuito che al suo conterraneo Achille Ratti, Papa Pio xi — entrambi erano nativi di Desio — non si potesse rispondere che con un fiat. D’altronde il Pontefice aveva scelto proprio lui, forse perché ne conosceva la passione missionaria e la forza di assumersi responsabilità corpose e di lungo corso, senza esitazioni. La chiamata di Dio, pensava Caspani (come era avvenuto per la sua vita di sacerdote e di frate barnabita), si accoglie con fede e con docilità, lasciandosi guidare perché l’Onnipotente possa agire, secondo i suoi piani insondabili, nella storia umana. La missione che avrebbe cambiato per sempre la sua vita riguardava una terra dove da diversi secoli era sparita ogni traccia di cristianesimo: l’Afghanistan.

Dal trattato italo-afghano del 1921 erano trascorsi una decina d’anni. Il re Amanullah Khan, sul trono dell’Afghanistan dal 1919, cercava di favorire la collaborazione con gli stati europei e occidentali. Per questo sul suolo afghano c’erano, oltre ai corpi diplomatici, gruppi di tecnici con le loro famiglie giunti per ragioni di lavoro, con contratti spesso biennali. Tra essi, molti erano i cattolici e, in tale contesto, attraverso le ambasciate dei rispettivi paesi, era giunta alla corona la richiesta di avere un sacerdote residente a Kabul, per assistere spiritualmente una comunità allora disseminata su tutto il territorio. Il re Amanullah aveva fatto sapere alla Santa Sede di essere favorevole, passando per un accordo con l’Italia, primo Paese occidentale a riconoscere, nel 1921, l’indipendenza dell’Afghanistan.

Era il momento di concretizzare quel piano e scrivere una nuova pagina della storia missionaria in Asia, inviando un “cappellano cattolico” in una terra completamente islamica. Egidio Caspani (Desio, 1891 - Buffalo, 1962), era stato ufficiale dell’esercito italiano durante la prima guerra mondiale. Conosceva diverse lingue (inglese, francese e tedesco), era uno studioso, insegnante di dogmatica e di storia, appassionato di Bibbia. Era diventato uno degli assistenti del superiore generale dei barnabiti per la conduzione dell’Ordine religioso, ed era anche responsabile della formazione dei chierici a Roma. Un uomo con l’esperienza e il profilo giusto. Si apriva per lui una nuova, imprevedibile avventura di fede. Pio xi, che lo aveva conosciuto di persona, lo riteneva particolarmente adatto per la missione in un Paese chiuso a qualsiasi rapporto ufficiale con il cristianesimo. Caspani aveva il delicato compito di aprire un breccia e di gettare nuovamente il seme del Vangelo. Il 25 gennaio 1931 così Pio xi scriveva a don Ferdinando Napoli, superiore generale dei Chierici regolari di San Paolo, detti barnabiti: «Figli di San Paolo, dovete accogliere con entusiasmo l’occasione che vi apre una porta per evangelizzare nuovi popoli. Voi scriverete una delle pagine più belle della vostra Congregazione, poiché è dato a voi per primi, dopo venti secoli di cristianesimo, di penetrare in quel paese e di portarvi la luce del Vangelo. Essa costa e costerà sacrifici ma non v’è opera grande senza sacrifici». Dopo un breve discernimento, il missionario non si tirò indietro. Tra le consegne date a Caspani — accanto a quella, essenziale, di dispensare i sacramenti ai cattolici in terra afghana — il Pontefice gli chiese di studiare a fondo la geografia, la storia, l’economia, la costituzione, la cultura e le tradizioni religiose del paese. Si doveva entrare in punta di piedi, preparando il terreno, nella speranza che il Signore facesse nuovamente germogliare quel seme.

Era un particolare momento storico perché, dopo il vii secolo, era la prima volta che in Afghanistan tornava ufficialmente una presenza cristiana, col permesso del governo. La cappella cattolica da allestire, di per sé, non sarebbe sorta in territorio afghano, ma all’interno dell’ambasciata italiana a Kabul: era l’escamotage che permetteva di continuare a dire che «nessuna chiesa cristiana sorgeva in territorio musulmano». Il cappellano aveva anche il permesso di servire gli altri gruppi di cattolici presenti nel Paese. Si doveva astenere da ogni forma di proselitismo verso la popolazione musulmana ma, per il resto era, di fatto, il “parroco dell’Afghanistan”.

Mentre Caspani si preparava a quella imponderabile missione, fu deciso di affiancargli il confratello Ernesto Cagnacci (1908-1986) che, non potendo comparire come sacerdote (un solo prete era autorizzato a stabilirsi a Kabul), venne presentato alle autorità afghane come suo “aiutante di studio”. Scoccava così l’ora dell’epica impresa. Salpati da Venezia il 9 dicembre 1932, i due missionari, solcando il Mediterraneo, giungono a Porto Said, nel nord-est dell’Egitto. Da lì, attraversano il Mar Rosso alla volta di Bombay, dove approdano il 21 dicembre. Dall’India, con un avventuroso trasbordo in treno, raggiungono Peshawar e, proseguendo in automobile dalla città nell’odierno Pakistan, si inerpicano, entusiasti e trepidanti, verso il leggendario passaggio montano del Khyber Pass. Nella notte di Natale del 1932 attraversano il valico e, tremanti di emozione, mettono piede e baciano il suolo afghano. Cristo nasce anche a Kabul. In quella notte stellata, che Caspani racconterà in lettere dense di fede e di passione missionaria, rinasce la presenza cristiana nel paese “crocevia dell’Asia”.

Era un nuovo inizio per l’Afghanistan che, infatti, molti secoli prima aveva già conosciuto l’annuncio cristiano. Le cronache ricordano le missioni degli apostoli Tommaso e Bartolomeo in Persia e, nel vangelo apocrifo di Tommaso, si cita la provincia di Battriana, a ridosso della catena montuosa dell’Hindu Kush, oggi entro i confini dell’Afghanistan. Da allora la Chiesa assira d’Oriente (cosiddetta nestoriana) istituì comunità a Herat, Kandahar e in altre località del territorio afgano, poi soppresse dalle conquiste arabe del vii secolo. Memori di quelle antiche vestigia e consci della loro nuova missione, i due preti cattolici intraprendono con “entusiasmo” — nel suo significato etimologico “con Dio dentro di sé” — la loro avventura e si immergono totalmente nella cultura e nelle tradizioni di quella terra. Scrivono lettere, diari, accurate relazioni e, fedeli al mandato papale, descrivono minuziosamente la nazione in una pubblicazione di carattere analitico, ricca di particolari geografici, storici, culturali e religiosi che l’editore Vallardi pubblicherà nel 1951 nell’opera Afghanistan, crocevia dell’Asia. L’opera costituisce ancora oggi un riferimento essenziale per chi si accosta a quella nazione che è stata uno snodo straordinario, al centro di un “grande gioco” in cui numerose civiltà eurasiatiche hanno interagito, si sono incontrate, scontrate e mescolate: tra califfi e turchi, mongoli di Gengis Khan e persiani, tra britannici e russi, fino alla creazione del regno di Afghanistan, con l’ascesa del re Amanullah Khan che, nel 1919, riprese il controllo della politica estera, uscendo dalla zona d’influenza del Regno Unito.

A quasi novant’anni dall’arrivo dei pionieri Caspani e Cagnacci, “quel prete” è ancora lì: oggi, ultimo di sei frati che si sono ufficialmente avvicendati in quel servizio, è il barnabita Giovanni Scalese, arrivato a Kabul nel 2015 e insediatosi come superiore della missio sui iuris di Afghanistan creata da san Giovanni Paolo ii. Dal 2002, infatti, quella che inizialmente era una semplice assistenza spirituale all’interno di un’ambasciata, ha acquistato la dignità di “provincia ecclesiastica”, alle dirette dipendenze del dicastero vaticano di Propaganda Fide. Nel frattempo, però, le circostanze storiche sono radicalmente mutate: nel 1992 è stata proclamata la Repubblica islamica dell’Afghanistan, al termine di un decennio di belligeranza in cui il paese è stato terreno di confronto tra le grandi potenze della “guerra fredda”. I sovietici, dopo l’invasione nel 1979, avevano abbandonato il terreno nel 1989, lasciando al potere i mujaheddin sostenuti dagli Stati Uniti. Il 1996 segna l’avvento dei talebani e pochi anni dopo, nel 2001, inizia la nuova guerra dichiarata da Usa e Regno Unito, dopo l’attacco dell’11 settembre.

In una storia caratterizzata dalla conflittualità tra gruppi militanti, fazioni, clan e i cosiddetti “signori della guerra” che da quarant’anni imperversano nella nazione, il seme evangelico, piantato in un terreno spinoso e a tratti inospitale, «è germogliato in una pianticella che è tuttora fragile», spiega a «L’Osservatore Romano» il barnabita Giovanni Rizzi, studioso che ha raccolto i diari dei confratelli e ha ricostruito la loro missione ne I parroci di Kabul: dal re ai talebani (Trapani, il Pozzo di Giacobbe, 2016). Un unico sacerdote blindato in ambasciata — oltre ai cappellani degli eserciti stranieri, a tutti gli effetti ufficiali militari — pone legittimi interrogativi per valutare se valga la pena tenere aperta una missione cattolica in una nazione senza battezzati autoctoni. Ma i barnabiti non hanno dubbi: quel seme «darà frutto a suo tempo, secondo il piano provvidenziale di Dio», osserva Scalese. «La missione cattolica afghana, nei limiti imposti dalla situazione — spiega — tiene accesa la fiamma della fede e della speranza in un contesto apparentemente impermeabile al Vangelo. Con le sue povere attività offre una testimonianza, circoscritta ma significativa, di amore disinteressato per gli ultimi. E soprattutto, attraverso l’Eucaristia, rende realmente presente Cristo anche in questa remota regione dell’Asia centrale».

Oggi il barnabita — per motivi di sicurezza e dato il susseguirsi di atti terroristici — non può uscire dal compound diplomatico. È una situazione ben diversa da quella che vissero i pionieri, che girarono l’Afghanistan in lungo e in largo. Caspani e Cagnacci potevano viaggiare e la gente chiamava il prete mullah sahib, cioè “il sacerdote dei cristiani”. Ora l’attività pastorale della missione si limita alla celebrazione quotidiana della messa nell’austera cappella dedicata alla Madre della divina provvidenza, edificio in cemento bianco inaugurato nel 1960. La lingua prescelta è l’inglese, comprensibile per un uditorio di genti di diverse nazionalità, culture ed etnie, tutti stranieri, membri del personale delle ambasciate o delle ong. La missione sociale e umanitaria, al di fuori dalla fortezza diplomatica, è affidata alla presenza di suore di diverse congregazioni. Le Piccole sorelle del vangelo di Charles de Foucauld, istituto fondato nel 1939 da Magdeleine de Jésus, giunsero a Kabul nel 1954 e, dall’anno successivo, cominciarono a lavorare come infermiere nell’ospedale governativo della capitale. Rimaste in territorio afghano sia durante l’occupazione russa del 1979, sia nel corso della guerra civile iniziata nel 1992 e anche dopo l’avvento dei talebani nel 1996, le ultime hanno lasciato a malincuore l’Afghanistan nel 2017. Nel 2004 sono arrivate le religiose dell’associazione “Pro bambini di Kabul”, comunità formata da membri di differenti congregazioni impegnati insieme nell’assistenza a minori gravemente disabili, in particolare i cerebrolesi, per i quali hanno aperto un centro qualificato, il primo nella nazione. L’associazione, a cui aderiscono quindici ordini religiosi maschili e femminili, è nata in risposta all’accorato appello che Giovanni Paolo ii lanciò nel Natale 2001 per salvare i bambini di Kabul, di fronte a un’emergenza che vedeva, solo nella capitale afghana, quarantamila piccoli mendicanti. Nel 2005 si sono stabiliti nel paese i gesuiti indiani del Jesuit refugee service, impegnandosi nel campo dell’istruzione e, un anno più tardi, le Missionarie della carità che gestiscono un orfanotrofio per bambini disabili e aiutano oltre trecento famiglie povere.

Quanto ai rapporti con l’islam afghano, prezioso riferimento è la figura del domenicano Serge de Beaurecueil (1917-2005). Jean-Jacques Pérennès, suo confratello e connazionale, direttore dell’École biblique et archéologique française di Gerusalemme, in una biografia dal titolo Passion Kaboul, ne racconta la straordinaria parabola di vita missionaria. Giunto a Kabul nel 1955 per tenere una conferenza sul poeta afghano Abdallah Ansari (1006-1089), gli venne offerta una cattedra all’università statale. Si trasferì lì nel 1962, insegnando storia del sufismo. Ma non restò solo un professore. Un ragazzo afghano di nome Ghaffar – racconta Pérennès — si recò da lui chiedendogli di «condividere il pane e il sale».

Questo incontro, interrotto dalla morte prematura del giovane, segnò un passaggio della sua chiamata: mangiare insieme “il pane e il sale” divenne un potente invito a condividere la vita con il popolo afghano. Il missionario trasformò poco alla volta la sua abitazione in un luogo dove bambini di diverse etnie trovarono una nuova famiglia, chiamandolo padar, cioè “babbo”. De Beaurecueil, scrive il suo confratello, «maturò un senso dell’Eucaristia come consegna della vita e testimonianza spoglia del Vangelo, nel silenzio, nella quotidianità, nel sorriso: liturgia della vita, liturgia dell’incontro». Sulla tomba del giovane Ghaffar il domenicano pose una stele su cui era inciso il testo evangelico delle beatitudini.

di Paolo Affatato