«Linea d’ombra», una raccolta di quadri di Mario Panizza

Appartenenza e alterità

«Selciato» (Bergen, 2016)
26 ottobre 2020

Con un titolo fortemente evocativo, in Linea d’ombra (Napoli, Editoriale Scientifica, 2020, euro 10) Mario Panizza presenta una seconda raccolta dei suoi quadri, dopo la fortunata accoglienza riservata a Il giro del mondo in 80 tombini (2015), volume nel quale aveva raccolto in un unico e insolito viaggio le molte tappe percorse negli anni, soprattutto in bicicletta, eleggendo proprio i tombini come segni distintivi dei luoghi visitati, elevandoli a opere d’arte e svelandone iconografie e caratteri, che racchiudono l’essenza stessa dei territori in cui insistono. Nel celebre racconto di Joseph Conrad, la linea d’ombra è la frontiera invisibile che delimita l’età della giovinezza del personaggio principale, il giovane capitano di marina che alla sua prima esperienza al comando di una imbarcazione si trova inaspettatamente ad affrontare una situazione difficile, quasi disperata, dalla quale riesce a emergere, non senza una certa dose di fortuna, sentendosi al termine del viaggio approdato nel terreno più sicuro ma meno stimolante della maturità. Quali frontiere descrivono le ombre che Panizza riproduce nelle sue tele dipinte ad acrilico con infinite sfumature di bianco, di nero, di grigio? Che territori separano? Quali spazi dell’esistenza umana delimitano? Che le ombre costituiscano un topos culturale della contemporanea presenza e assenza, del riferimento a qualcosa che appare e scompare, non è certo una novità e, com’è noto, Plinio il Vecchio (nella Naturalis historia) e Quintiliano (nella Institutio oratoria) tramandano la leggenda che la pittura e la scultura siano nate dal desiderio di fermare un’ombra fuggente, quella di una persona amata. La storia dell’arte occidentale ha fatto dell’ombra un motivo di costante elaborazione, come ci insegna Victor Stoichita nel suo Breve storia dell’ombra (1997). In particolare nel periodo di revival del naturalismo iniziato nel Rinascimento, la capacità dei pittori di illudere sulla verosimiglianza delle loro storie dipinte si è basata anche sulla capacità di evocare la plasticità dei corpi, che si frappongono come volumi nello spazio illuminato e quindi gettano ombre. La presenza di ombre è stata un elemento figurativo centrale nel realismo pittorico, fino alle avanguardie di fine Ottocento. Anche quando la pratica artistica, con le neoavanguardie, è diventata largamente post-pittorica, abbandonando tela e colori come medium privilegiato, l’ombra è tornata centrale nella teoria semiotica dell’arte grazie a un celebre saggio di Rosalind Krauss del 1977, Note sull’indice.

Intesa come una tipologia di quella classe di segni detti indici — che non sono elaborati culturalmente ma che sono la semplice manifestazione di una presenza fisica, come le impronte, le tracce, il fumo, le orme — Krauss osservò che ombre e fotografie (che sono appunto una traccia fotochimica) sono state una delle modalità dominanti della pratica artistica degli anni Settanta. Fotografie di ombre sono anche la fonte visiva e il motivo iconografico ispiratore delle più recenti opere di Mario Panizza.

Panizza si situa quindi in una lunga tradizione pratica e di elaborazione teorica nella storia dell’arte. Ma al di là degli antecedenti storici e critici, il suo lavoro è certo dettato — consapevolmente o inconsapevolmente — dal fascino che l’ombra esercita nell’esperienza comune. Del resto, poche cose intrigano tanto i bambini, nella fase della presa di coscienza di sé, come l’ombra: questa nostra compagna che ci segue ovunque ci sia un po’ di luce, in mutevoli forme, distendendosi o comprimendosi, allungandosi in orizzontale su strade (come nei quadri di Panizza: Bergen, 2016, per esempio), ergendosi in verticale su muri (Granada, 2019), plissettandosi su scalini (come sui gradini sbrecciati dell’anfiteatro di Palazzolo Acreide, 2019).

Le immagini di Panizza colgono proprio questo sentimento ambivalente del nostro rapporto con l’ombra, di appartenenza e alterità. I quadri, elaborati a partire da immagini fotografate scattate da Panizza stesso, o ricevute da amici che conoscono questa sua passione per il tema, sono un campionario di quei sentimenti di sorpresa o compiacimento che ciascuno di noi può avere nel cogliere le inaspettate metamorfosi delle ombre nel quotidiano vivere e muoversi. Qualche volta sono le ombre di un edificio che compaiono sulla facciata di un altro palazzo: la colonna Antonina sulla facciata di Palazzo Chigi, in Roma, 2019, per esempio, oppure le cupolette gemelle della Chiesa Valdese sulle impalcature di un altro edificio, ancora intitolato Roma, 2019; oppure la lunghissima ombra proiettata dalla luce radente del sole su una facciata di una casa popolare del quartiere romano del Tuscolano.

Talora le ombre sono quelle colte “in soggettiva” dall’autore, che ha ripreso la sua stessa proiezione, come in Amburgo, 2018, in cui l’ombra della testa — il corpo resta fuori dal quadro/inquadratura — si allunga in un lavandino in cui scroscia l’acqua, cogliendo il momento intimo del risveglio e quel trovarsi di nuovo, ogni mattina, faccia a faccia con noi stessi davanti allo specchio del bagno (solo che qui vediamo non la pienezza del riflesso ma appunto la presenza negativa dell’ombra). Spesso le ombre cadono ai piedi di persone, sulla strada, sui ferri di una grata di areazione, su un muro, sulla ghiaia, sulla sabbia: di tali soggetti non vediamo mai i corpi ma solo l’assenza di luce che essi causano. Infatti delle ombre Panizza coglie l’intrinseca bellezza e frustrazione: esse sono tutte, per certi versi, degli autoritratti, che tuttavia celano i soggetti, imprimono qualcosa di noi, ma per loro natura sono impalpabili e instabili.

Disegnando o colorando il tracciato segnato dalle fotografie di ombre, a ben vedere Panizza ridà corpo materico a quelle che, tecnicamente, sono indici di indici: tracce di luce (su pellicola o un sensore digitale) di altre tracce (le ombre propriamente dette, o anche altre impronte, come quelle lasciate da piedi di un passante sulla sabbia a Sabaudia, 2019). Così Panizza, traducendo in colore le impronte di altre impronte, cerca di situarsi in questo interstizio tra l’essere e l’assenza. Non a caso i titoli dei suoi lavori sono sempre topograficamente specifici: Ariano Irpino, Roma coop, Berlino, Palazzolo Acreide, Mosca, Tokyo, Roccaraso, come per volere certificare la realtà dell’esserci in un momento in un luogo specifico.

In effetti, le informazioni topografiche date dai titoli dei quadri di ombre evocano altrettanti hic et nunc già stati ma ormai svaniti, come quando si spegne una luce, e non a caso la prima tappa espositiva di queste opere (in realtà già prevista per i passati mesi di marzo e aprile, riprogrammata per lo stesso periodo del 2021) sarà la città della luce per eccellenza, Napoli, nella prestigiosa sede del Palazzo delle Arti – PAN, rispetto alla quale le ombre di Panizza sembrano segnare un netto contrappunto.

Eppure Napoli è stata riconosciuta anche come città dalle molte ombre, come ha magistralmente descritto Anna Maria Ortese nel suo immortale Il mare non bagna Napoli, e a ben vedere i quadri delle ombre sembrano intessere un muto dialogo proprio con la Napoli di cui parlava l’Ortese, una città che costituisce l’ombra, allo stesso tempo impalpabile eppure sempre presente, dell’altra città, quella della luce, del sole, del mare… e del resto solo un meritorio editore napoletano come l’Editoriale Scientifica, avrebbe potuto rendere con tanta maestria tipografica i toni sfumati, le infinite nuances delle ombre dei quadri di Panizza.

di Gaetano Sabatini