PER LA CURA DELLA CASA COMUNE
L’azienda Mas Paints a Dubai e la cura dei dipendenti a 360 gradi

Dagli Emirati Arabi
un esempio
di “economia umana”

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24 ottobre 2020

Sono pakistani, indiani, nepalesi, filippini e ancora nigeriani, camerunensi, senegalesi. In comune hanno un passato di grande povertà, che li ha costretti a lasciare patria e famiglia e ad emigrare, e un presente che cerca di allontanarli da sfruttamento e nuovi disagi. Si tratta di molti dei 212 dipendenti della Mas Paints, fabbrica di vernici per legno e pareti nata nel 1989 in Italia e dal 2000 presente a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, Paese in cui — a fronte di circa 10 milioni di abitanti — 9 persone su 10 sono di origine straniera. A raccontare a Vatican News di questi “colleghi e amici della ditta” è Abdullah Al Atrash, il direttore generale dell’azienda, fondata da suo padre e suo zio. Nel sentir parlare questo giovane imprenditore italo-siriano, 42 anni, una laurea in economia e commercio all’Università di Ancona e un master all’Istituto Adriano Olivetti del capoluogo marchigiano, torna alla mente la riflessione sul lavoro contenuta nell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, che porta il Pontefice ad evidenziare come esso sia «una necessità», una «parte del senso della vita su questa terra, via di maturazione, di sviluppo umano e di realizzazione personale».

L’altro da sé


«Qualsiasi forma di lavoro — mette ancora in luce il Papa — presuppone un’idea sulla relazione che l’essere umano può o deve stabilire con l’altro da sé». Arrivando nel 2005 a Dubai, Abdullah ha osservato, studiato e in un certo senso fatto proprio il mondo dei lavoratori migranti. «Per me è stato un trauma vedere come vivano queste persone. Tutti coloro che dai Paesi poveri vanno a lavorare in altri Stati, qualsiasi essi siano, devono poi mandare a casa molto denaro per sostenere un numero davvero alto di parenti, perché hanno tutti un sistema allargato di famiglia, nel senso che aiutano anche genitori, fratelli, cugini. Ho fatto allora un calcolo secondo cui — spiega — in media ognuno di loro deve mantenere 10 persone e questo non solo per esempio dal punto di vista dei soldi che servono per fare la spesa, ma del denaro che fa realmente la differenza tra la vita e la morte, perché in tanti di quei Paesi non vi è uno Stato sociale, per diversi motivi: grande povertà, guerra, instabilità politiche, tensioni etniche o religiose. Questa gente in genere lavora tantissime ore, con impieghi faticosi, con paghe veramente basse. Ho visto casi di persone che lavorano nell’edilizia e guadagnano una cifra che arriva a 130-150 euro al mese, privandosi di tutto pur di mandare soldi a casa».

Una cultura della reciprocità


Il Pontefice nella Lettera enciclica del 2015 puntualizza come «aiutare i poveri con il denaro» possa essere un «rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze»: il «vero obiettivo» — chiarisce — dovrebbe sempre essere di consentire loro «una vita degna mediante il lavoro». Ateo, sposato con una donna cattolica e padre di due figli, Abdullah condivide con la moglie Manuela l’esperienza del Movimento dei Focolari e le iniziative dell’Economia di comunione, avviate nel 1991 da Chiara Lubich per promuovere una cultura economica improntata alla reciprocità, proponendo e vivendo uno stile di vita alternativo a quello dominante nel sistema capitalistico. Un percorso di vita, quello dell’imprenditore italo-siriano, che lo ha portato a «tener presenti i costi della vita e il mondo in cui vivono» questi migranti, adottando misure concrete per i lavoratori della sua azienda. Non è stato facile, confessa, ma «ho moltiplicato per 5 uno stipendio base, perché potessero avere una vita assolutamente dignitosa. E ho deciso di pagare loro, non solo al dipendente ma a tutta la famiglia “allargata”, le spese mediche di qualsiasi genere e quelle per l’educazione dei figli — perché senza educazione difficilmente troverebbero lavoro — sostenendoli nei loro studi fino all’università».

Un bene comune


Il valore predominante sembra essere, dunque, quel capitale sociale che è l’insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole indispensabili ad ogni convivenza civile, come sottolinea Francesco nell’enciclica, citando la Caritas in veritate di Benedetto xvi. Abdullah racconta di aver «creato un fondo, che viene preso dagli utili», per andare ulteriormente in aiuto dei lavoratori. «L’utile aziendale — ci tiene a sottolineare — deve secondo me essere impiegato sia per investire nell’azienda affinché possa crescere, sia ovviamente per le necessità dei titolari, ma deve anche andare in egual misura ai dipendenti dell’azienda. Di fatto è un bene comune: un’azienda è di tutti, perché vi lavorano tutti e deve servire tutti». «Ad un certo punto — prosegue — mi sono accorto che tra i dipendenti, oltre a queste necessità, c’era anche il problema della casa in patria. L’ho capito parlando con le persone, ho voluto instaurare con loro un rapporto umano e non solo lavorativo, parlando di me e di loro, delle nostre vite. Questa è comunità. E ciò mi ha fatto capire che, per costruirsi una casa nei Paesi d’origine, loro avevano due modi: cercare di prendere soldi dalle banche, ma le banche non prestano soldi ai poveri, o — e per me è stato doloroso saperlo — rivolgersi agli usurai (perché l’usura è molto diffusa in quei Paesi) facendo poi sacrifici enormi per restituire i soldi e impiegando anni. Quindi ho cercato di capire da quante persone fosse composta la famiglia, dove queste persone volessero costruire la casa e, calcolando la somma necessaria, abbiamo provveduto ad un prestito, da restituire liberamente nel tempo e secondo le possibilità. La somma prestata è a tasso zero, anche se il tasso zero in effetti non esiste perché c’è sempre l’inflazione, soprattutto in certi Paesi».

Una produzione che rispetti l’ambiente


Nel corso dell’anno speciale indetto da Papa Francesco fino al 24 maggio 2021 per riflettere sull’enciclica Laudato si’, ad Abdullah chiediamo come la propria azienda riesca a rispondere alla sfida urgente di proteggere la “casa comune”. «Produciamo alcune vernici che sono assolutamente non tossiche, quindi non nocive e non inquinanti. Ci sono poi altre gamme di prodotti che invece necessariamente lo sono, pensiamo per esempio ai solventi, molto utilizzati anche nel campo farmaceutico. La cosa importante è che non vadano a danneggiare l’ambiente, perché l’ambiente siamo noi: il Papa lo ricorda continuamente. Io, da ateo, capisco che l’ambiente è tutto ciò che vive». «Quindi in azienda — va avanti — puntiamo alla protezione dei lavoratori, in modo che la loro salute sia tutelata al 100 per cento, investendo moltissimo in sicurezza, in maschere, impianti d’areazione e macchinari che non fanno fuoriuscire sostanze come i solventi. Per quanto riguarda i rifiuti, abbiamo puntato tanto su macchinari che separano i rifiuti solidi, liquidi e gassosi. Successivamente società pubbliche, del governo, vengono a prenderli e li trasferiscono in luoghi appositi e adatti allo smaltimento, per evitare che vadano ad inquinare l’ambiente. Perché sotto di noi c’è il mare: quando scaviamo un po’ sotto la fabbrica troviamo il mare!».

La pandemia


Nell’emergenza mondiale da coronavirus, le preoccupazioni per le condizioni dei lavoratori sono cresciute. «L’ondata che è arrivata qui — ricorda Abdullah — è stata fortissima, ha colpito l’Iran, il Kuwait, l’Arabia Saudita, tutti i Paesi intorno a noi. Il periodo più duro, con la chiusura totale, è stato tra marzo e aprile. Quando si sono avute le prime notizie del virus, abbiamo predisposto delle misure, come l’adozione di barriere di vetro per i dipendenti, in uno spazio simile ad uno sportello bancario, l’uso di mascherine chirurgiche, la misurazione della temperatura corporea, il rispetto della distanza di sicurezza di due metri, i tamponi a tutti i dipendenti, il coordinamento quotidiano con il ministero della Salute locale. E inoltre ho affittato una trentina di monolocali per osservare le quarantene in sicurezza».

Un incontro di convivenza


A colpire è la parola “convivenza” che ritorna più volte nel colloquio con Abdullah, anche quando ricorda di aver partecipato, ad inizio 2019, alla Messa del Papa ad Abu Dhabi, in occasione del viaggio di Francesco negli Emirati Arabi Uniti, già all’insegna di quella fraternità e amicizia sociale di cui il Pontefice oggi parla nella Fratelli tutti.

«Un’esperienza magnifica, sono andato con alcuni dei colleghi e con gli amici del Movimento dei Focolari. C’era tantissima gente, tant’è vero che io ero fuori lo stadio, sul prato, da dove si poteva seguire l’evento attraverso dei maxischermi. Ho notato che la grande maggioranza dei presenti era cattolica, ma c’erano pure 5 mila musulmani, oltre a qualche gruppo di buddisti, indù e sikh. Trasmettevano le immagini del sentito abbraccio col Grande Imam di Al-Azhar Ahamad al-Tayyib. È stato un momento liberatorio, di incontro tra mondo islamico e mondo occidentale, con il Papa venuto qui con grandissima umiltà: ha ringraziato il Paese, le autorità, il popolo, nello spirito della convivenza, della pace, della tolleranza. Ci ha voluto dire che stare tutti insieme è possibile».

di Giada Aquilino