La ripresa delle lezioni nella scuola in ospedale più antica d’Italia

Quella bellezza che prima non avvertivamo

Uno degli ambienti dell’ospedale Auxologico di Piancavallo
05 ottobre 2020

Scrivo al ritorno dalla mia giornata di lavoro alla scuola dove insegno da una quindicina di anni, la Scuola in ospedale dell’Istituto Auxologico Italiano di Piancavallo di Oggebbio (Verbania), una scuola che vanta molti primati. È una delle Scuole in ospedale più antiche d’Italia.

Fu infatti fondata nel 1958 da monsignor Giuseppe Bicchierai (1898-1987), il primo animatore della Caritas Ambrosiana, e amico di Giovanni Battista Montini, allora arcivescovo di Milano, che benedisse la prima pietra sulla quale venne edificata la struttura scolastica.

È anche la Scuola in ospedale più alta d’Italia; siamo a 1250 metri sul livello del mare sulle Prealpi piemontesi. Sotto di noi si scorge il disegno frastagliato della parte settentrionale del Lago Maggiore e all’orizzonte c’è il Limidario, il monte che segna il confine tra l’Italia e la Svizzera. Non ci vuole molta immaginazione per associare questi posti a quelli della Montagna incantata di Thomas Mann.

L’ospedale ha due padiglioni: quello Nord, dove sono ricoverati gli adulti e quello Sud dove sono ospitati i minori e dove ha sede anche la scuola che è frequentata da settembre e giugno dai giovani degenti delle primarie e delle secondarie di primo e secondo grado provenienti da ogni parte d’Italia. In questo ospedale sono curate, sotto la guida del primario Alessandro Sartorio, soprattutto malattie legate alla crescita e ai disturbi alimentari, in particolare le grandi e medie obesità. Questa particolarità fa sì che le ragazze e i ragazzi che arrivano qui presentino non solo un quadro clinico ma anche un vissuto psicologico difficile, fatto di isolamento e di “distanziamento”, che hanno dovuto subire all’interno del gruppo dei pari già prima del covid-19.

Nel nuovo ambiente del reparto che li ospita non scontano questa “differenza” e ciò facilita la comunicazione tra i singoli e la creazione di nuovi gruppi. Inoltre mi ha sempre sorpreso il fatto che hanno una grande consapevolezza dell’essere resi più coesi proprio dall’esperienza di ospedalizzazione.

Momenti difficili ce ne sono. Per esempio quello del distacco dei familiari che li accompagnano. E oggi questo passaggio è reso ancora più evidente dalle rigide procedure per contrastare l’epidemia del covid-19. Ogni piano funziona come un compartimento stagno, per cui gli insegnanti non possono più accedere al reparto. E pensare che io e alcuni colleghi fino al 21 febbraio di quest’anno abbiamo fatto lezione in corsia...

A differenza degli altri primi giorni di scuola i ragazzi ricoverati mi sono sembrati ancora più pazienti del solito. Hanno seguito puntualmente le istruzioni per l’igienizzazione delle mani e degli ambienti. Si vedeva che per loro era una ripetizione di quello che si erano già sentiti dire dai dottori, dagli infermieri, dagli educatori. Poi hanno preso posto tra i banchi regolarmente distanziati e finalmente è iniziata quell’ora di lezione che mancava loro da tanto tempo.

Rispetto agli altri primi giorni di scuola un’altra cosa che mi ha colpito è stata la serietà. Per il silenzio con cui seguivano la lezione, per le osservazioni che facevano a proposito del lock-down e della didattica a distanza di cui si è inevitabilmente parlato e su cui inevitabilmente torneremo.

Mi sono sembrati più maturi, più cresciuti dei loro compagni che hanno affrontato il primo giorno di scuola nei precedenti anni scolastici. In quelli infatti prevaleva la voglia di considerare ancora “vacanza” quella giornata, questi invece erano già pronti ad affrontare la lezione. Come se i preliminari non interessassero loro più di tanto.

E forse anche noi professori siamo stati diversamente motivati: come far fruttare appieno questo momento, come essere più diretti e giungere meglio alla cosa. Anche noi abbiamo capito quanto sia importante questa presenza e ogni attimo che si vive in essa. Abbiamo scoperto la possibilità di attenzione, di notare le cose proprio perché siamo passati attraverso la bidimensionalità di uno schermo. Anche per noi è stata nuova la riacquistata profondità, non solo dello spazio ma anche del nostro percepire e sentire, che ci regalava questo tornare in classe.

Sono state verità di un attimo che però finiranno per cambiare decisamente, ne sono sicuro, il nostro modo di fare scuola. Quello che prima era scontato: l’aula, la scuola, il rapporto con lo studente, adesso sappiamo, sia pure inconsapevolmente, che potrebbe non esserlo e che la magia di questo flusso di idee e di emozioni che corre mentre magari mi trovo a rispiegare il predicato nominale ha una sostanza e una materialità e, diciamolo pure, una bellezza che prima non avvertivamo.

È stato necessario passare attraverso il “crogiolo” di questi mesi di chiusura per tornare a sentirlo di nuovo. Questa è l’emozione nuova che mi regalato l’inizio di questo anno scolastico. La stessa, io credo, che ha attraversato i ragazzi ricoverati. Perché alla fine della lezione uno di loro, mentre riponeva  le proprie semplici cose nel sacchetto, mi ha detto che quella mattinata era volata. Certamente anche lui era stato divorato dallo stesso mio bisogno di cogliere ogni momento e, come me, ha intuito quanto fosse prezioso quell’attimo che stava vivendo.

di Lucio Coco