Trecento anni fa nasceva Piranesi, il maggiore incisore e vedutista italiano del XVIII secolo

Quando si incontrano perfezione e mistero

«L’interno del Pantheon» (1756)
03 ottobre 2020

Trecento anni fa, il 4 ottobre 1720, nasceva il maggior incisore e vedutista italiano del XVIII secolo, Giovanni Battista Piranesi. Un’altra figura mitica del Settecento veneziano di Tiepolo, Guardi, Canaletto e altri geni del pennello e del bulino. Ma con una differenza, non solo tecnica. Se figlio di S. Marco era di certo per nascita e formazione (aveva visto la luce a Mogliano Veneto e studiato architettura e antiquaria a Venezia), il decisivo stage svolto a Roma nel 1740 e il suo trasferimento otto anni dopo nella Città Eterna, dove resterà fino alla morte nel 1778, fanno di Piranesi uno degli artisti più forti e originali, e anche più noti e celebrati, che abbiano fissato l’Urbe antica e cristiano-pontificia al centro del proprio interesse e della propria ispirazione. Veneziano di formazione, insomma, e per giunta nell’età raffinata e d’oro dell’arte veneta, ma romano quant’altri mai nella sua visione e produzione.

Il rapporto di questo insigne immigrato veneto con Roma (ma all’arrivo è solo un disegnatore al servizio dell’ambasciatore della Serenissima) è in effetti profondo e continuo, al punto che quasi quasi il percorso abitativo-produttivo di Piranesi per il centro storico capitolino potrebbe diventare oggi una bella passeggiata turistico-culturale (ad onta ahimé del calo di visitatori, che confidiamo temporaneo). Prima tappa, piazza Venezia, dove il ventenne di belle speranze trova alloggio nel palazzo omonimo. Sono anni di apprendistato, in cui egli impara i rudimenti dell’acquaforte e delle altre tecniche calcografiche, con maestri che si chiamano Giambattista Nolli e Giuseppe Vasi, per ricordare i più titolati. E quando i risultati arrivano, con la stima degli esperti e il plauso del pubblico, Giovanni Battista trasloca nel cardo di Roma, via del Corso, nell’edificio davanti palazzo Mancini, allora sede dell’Accademia di Francia, che con Napoleone salirà al Pincio. Qui l’artista mette su sia casa che bottega, perché l’onore del successo gli porta l’onere di un insonne lavoro. Nasce (e mai finirà, anzi continuerà con i figli Francesco e Laura) il Piranesi produttore oceanico di incisioni, acqueforti, vedute, schizzi, immagini che girano per la città e il mondo, ma pure di un artigianato e un’oggettistica che vanno a ruba, contando fra le tante squisitezze mobili esclusivi, soprammobili e oggetti i più vari d’ornamento e arredamento (ricercatissimi i camini di Piranesi).

Così siamo alla terza statio, via Sistina, allora Strada Felice, perché aperta da Sisto iv, al secolo Felice Peretti, per l’anno santo 1600. L’artista, ormai consacrato e no stop come lavoratore, si piazza all’attuale civico 48, palazzo Tomati, dov’è titolare di un’impresa quasi industriale, che stampa e vende in proprio e ha perfino un catalogo di produzione, con tanto di illustrazioni e prezzi, che viene regolarmente aggiornato. È il 1761. Ancora diciassette anni col vento in poppa e poi la morte per malattia, il 9 novembre 1778, sazio se non di giorni certo di fama e di ricchezza. Il che ci porta all’ultima tappa del nostro iter. La piazza più esoterica e misteriosa di Roma, sullo spigolo est dell’Aventino, intitolata ai Cavalieri di Malta e disegnata da Piranesi in persona. Una delle poche opere architettonico-urbanistiche del grande incisore, che non poté realizzare fra i vari progetti a sua firma — nonostante l’appoggio di Clemente XIII, che lo ammirava e per cui lavorò — l’allargamento-rifacimento dell’abside di San Giovanni in Laterano. Ma, ancor più della straordinaria piazza, ciò che fa di quest’angolo di Roma la meta ultima ideale del tour piranesiano è in primis la tomba stessa dell’artista, sepolto per volontà del suo potente amico ed estimatore cardinale Rezzonico nella chiesa di S. Maria del Priorato, inclusa nell’attiguo Priorato di Malta e progettata questa sì dal grande veneziano. È un arrivo emozionante, anche se l’importante sepolcro, a destra entrando, non è più affiancato dal candelabro marmoreo realizzato da Piranesi stesso, “prelevato” a suo tempo da Napoleone e ora conservato al Louvre. In compenso, accanto alla tomba c’è la statua dell’artista, molto realistica e fisionomica (con un Giambattista stempiato, accigliato, in età matura e un po’ sovrappeso), scolpita da Giuseppe Angelini per incarico dei familiari del defunto.

A Roma dunque nacque e da Roma partì per i cinque continenti l’opera grafico-artistica più imponente e sofisticata concepita da un cultore del rame e del bulino. Con gli acquarelli di Roesler Franz, le Vedute di Roma di Piranesi sono il più palpitante album della Città Eterna che le arti figurative ci abbiano lasciato: i suoi due volti, popolare e nobile, entrambi millenari e contemporanei. Le rappresentazioni piranesiane di antichità, monumenti e rovine romane sono ammirate e celebri non solo perché perfette sul piano tecnico ma forse specialmente come espressione di uno spirito profondo, di un religioso culto di Roma e del fermo convincimento dell’autore — controcorrente allora dopo gli scavi a Pompei, Ercolano e Paestum — circa la superiorità del genio romano sul greco, per via della grandiosità, solennità e sacralità del costruire romano, inarrivabili per Piranesi. E con questo culto e quest’amore di Roma, nelle Vedute l’autore ci trasmette anche il suo senso del mistero, dell’ignoto, la sua originalità e fantasia creatrice. Una stampa romana di Piranesi (un rame ne produceva migliaia) non è mai banale, scontata, ha quasi sempre qualcosa di più, d’inatteso, occulto, a volte inquietante, con quelle figurette umane impiccolite per rendere gli archi, le volte, le mura e le colonne più maestose e degne dell’Olimpo romano.

E su quest’aspetto un po’ enigmatico, visionario e quasi protoromantico di Piranesi — collocato dai critici pure tra i fondatori del neoclassicismo, polemici col rococò al tramonto — va precisato che le oltre duemila tavole incise dall’artista non sono dedicate tutte a vestigia, chiese e monumenti romani. Una parte, frutto proprio del Piranesi più “tenebroso”, consiste nelle Carceri d’invenzione, per taluno il suo capolavoro, dove il dottor Jekyll del classicismo si consegna tutto al mister Hyde dell’esoterismo e dell’emozione. Sono immagini splendidamente impressionanti, con siti e stabilimenti di dolore pieni di scale, finestrelle, sbarre, catene (sembra di sentirle scorrere), cavalletti, corde, flagelli e altri arnesi di tortura. L’urlo di Munch ne parrebbe quasi il controcampo perfetto. Un incisore settecentesco ha saputo seguire un’ispirazione ed esprimere una creatività che preannunciano il romanticismo, il gotico e persino i film horror del Novecento. Marguerite Yourcenar lo ha amato specialmente per questo, chiamandolo «l’autore più segreto del XVIII secolo».

di Mario Spinelli