La conversione di William Wilberforce e l’abolizione della schiavitù

«Non sono un uomo e un fratello?»

Schiavi al lavoro in un campo di cotone degli Stati Uniti in un’illustrazione del XIX secolo
07 ottobre 2020

«Non sono un uomo e un fratello?». Il grido di dolore di tante persone strappate con violenza dalla loro terra e duramente sfruttate nelle Americhe divenne lo slogan  più noto dell’abolizionismo e fu inciso, accanto all’immagine di un africano in catene, su centinaia di spille e cammei indossati, come segno di riconoscimento e come testimonianza, dai membri del movimento che, fra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, si batterono per porre fine all’infame commercio degli schiavi, sotto la guida illuminata di William Wilberforce,  uno dei più grandi statisti e forse dei più grandi cristiani di tutti i tempi. Alla sua nobile figura il regista Michael Apted nel 2006 ha dedicato il  film Amazing grace , che ben ritrae il coraggio di un uomo che seppe essere voce per chi non aveva voce, mettendo a servizio dei suoi ideali l’appassionata eloquenza, la profonda preparazione, il vasto patrimonio e l’intera esistenza.

Su Wilberforce è reperibile una ricca bibliografia in inglese. In particolare, abbiamo i libri che lui stesso scrisse, i testi dei suoi discorsi parlamentari, la sua corrispondenza, il racconto dettagliato della sua vita in cinque volumi redatti dai suoi figli, Robert e Samuel, che poterono attingere anche al diario paterno, trascrivendone alcuni brani. In italiano purtroppo si trova molto poco. E dire che, in tempi di razzismo risorgente, la testimonianza dello statista inglese è più attuale che mai.

William Wilberforce nacque ad Hull il 24 agosto 1759. Suo padre, Robert,  era un mercante molto ricco e la famiglia era nota e stimata nella città. William aveva tre sorelle, ma due morirono in tenera età. Sopravvisse solo Sarah a cui fu teneramente legato per tutta la vita. Fin da piccolo mostrò intelligenza pronta, vibrante sensibilità, affascinante gentilezza nei modi e, purtroppo, salute alquanto gracile. A nove anni perse il padre e venne inviato a Wimbledon, vicino a Londra, a casa dello zio, che si chiamava William Wilberforce come lui. Sua moglie era la sorella di John Thornton, ricco mercante e fervente cristiano, grande benefattore. I due coniugi non avevano figli e desideravano conoscere il nipote, che sarebbe divenuto loro erede. Entrambi seguivano con entusiasmo la predicazione del reverendo George Whitefield, che era in relazione con i fratelli  John e Charles Wesley, fondatori del metodismo, protagonisti insieme a lui di quel movimento di rinnovamento spirituale all’interno del protestantesimo noto come “Grande risveglio”. La testimonianza degli zii spinse William a diventare a sua volta un ragazzo molto pio, che amava cantare con la sua bella voce gli inni scritti dal reverendo Charles Wesley. Fu anche colpito da John Thornton che una volta gli regalò una forte somma, parecchio superiore a ciò che era necessario per appagare i suoi sogni di adolescente, per permettergli di provare «la gioia di condividere il proprio denaro con i poveri». Avrebbe ricordato questo episodio per tutta la vita.

Nonostante ciò sua madre, Elizabeth Bird, non fu affatto contenta dell’educazione religiosa che veniva data a William e, anche se il distacco dagli zii per lui fu molto doloroso, si affrettò a ricondurlo a casa.  Qui il giovane venne immerso nella vita brillante dell’alta borghesia, con continui ricevimenti, feste, balli, serate di gala al teatro e all’opera. Inizialmente si sentì come un pesce fuor d’acqua, ma poi pian piano vi prese gusto, allontanandosi dalla pratica religiosa, anche se non diventò mai un dandy dissoluto.  Intanto continuava i suoi studi. Ad Hull ebbe fra i suoi insegnanti Isaac Milner, che un giorno avrebbe avuto un ruolo decisivo nella sua vita. A diciassette anni si trovò padrone di sé e del suo destino, erede di due cospicue fortune: quella del padre e quella dello zio. Nel frattempo si era stabilito a Cambridge, per proseguire gli studi. Essendo generoso e simpatico, era popolare fra i suoi compagni. Si legò con fraterna amicizia a William Pitt, figlio cadetto del conte di Chatham. Tanto Wilberforce era brillante, l’anima della compagnia, capace di incantare tutti con la sua abilità nel canto e nell’imitazione, tanto Pitt era studioso, silenzioso, riservato. Forse fu proprio quest’ultimo a comunicare all’amico la   passione per la politica. Sta di fatto che nel settembre 1780, a ventun anni, Wilberforce sedeva alla Camera dei Comuni per la città di Hull. Il 17 maggio 1781 pronunciò il suo primo discorso in Parlamento. Dopo una dura campagna elettorale, il 6 aprile 1784, venne eletto rappresentante della contea dello Yorkshire. Intanto, con una carriera fulminea, a ventiquattro anni William Pitt era primo ministro. Davvero, come amavano dire i due amici, «where there’s a will there’s a way» («dove c’è una volontà, c’è anche una via»). Soprattutto c’erano le vie del Signore che attendevano al varco Wilberforce con infinito amore. Il suo ritorno a Dio avvenne gradualmente.

Verso la fine di quel 1784 così importante per lui a causa del successo in politica, William volle organizzare un viaggio in Francia, per aiutare la sorella a fortificarsi nella salute con la dolcezza del clima mediterraneo. Invitò anche la madre e il suo antico insegnante, Isaac Milner. Il 30 novembre erano a Nizza. Il soggiorno fu ritemprante per tutti, con la casa sempre colma di amici, ma gli impegni politici richiamarono William in patria prima del previsto. Milner si offrì di accompagnarlo e di leggere con lui durante il viaggio un libro che era stato dimenticato da un ospite. Era Rise and progress of religion in the soul («Nascita e progresso della religione nell’anima») di Philip Doddridge. Per Wilberforce quel libro segnò l’inizio della conversione. L’anno successivo, a luglio, organizzò un nuovo viaggio con Milner da Genova a Torino e a Ginevra. Insieme lessero il Nuovo Testamento in greco. Poi, a novembre, durante una pausa dei lavori parlamentari, nella casa di Wimbledon, nel silenzio così pieno dei ricordi degli amati zii, Wilberforce da solo meditò sulla Bibbia e sui Pensieri di Pascal. Il 12 gennaio 1786 scriveva sul suo diario la risoluzione di «essere totalmente dedito ad essere un Metodista». Decisivi furono i colloqui col pastore John Newton, l’autore del famoso inno Amazing grace , che si era convertito dopo una vita avventurosa (era anche stato mercante di schiavi). Newton lo convinse a non lasciare l’impegno politico e a servire Dio come aveva fatto la regina Ester.

Il 28 ottobre 1787 Wilberforce comprese a cosa era chiamato: « Dio altissimo ha messo davanti a me due obiettivi, la soppressione del commercio degli schiavi e la riforma dei costumi». Per la sua opera di miglioramento sociale, cercò di coinvolgere il Parlamento e fondò oltre sessanta organizzazioni, formandone i leader e offrendo un generoso supporto economico, tanto che alla fine della sua vita il suo immenso patrimonio era svanito. Tali enti si occuparono di varie realtà: la lotta al lavoro minorile e alle durezze dei metodi educativi nelle scuole, il miglioramento delle condizioni carcerarie, l’aiuto agli studenti poveri, la vaccinazione contro il vaiolo, il sostegno agli artisti, le missioni in India a servizio del Vangelo, il soccorso agli animali abbandonati. La  casa di Wilberforce era  aperta a tutti, sempre piena di amici, collaboratori, bisognosi, uomini politici. E anche di randagi raccolti per strada, che Wilberforce faceva curare. La moglie, Barbara Spooner, gli diede sei figli e l’aiutò a creare una famiglia unita, standogli vicina con dedizione, specialmente quando la sua salute, sopraffatta da tanti impegni, sembrava cedere.

A consumare le sue energie fu specialmente la durissima battaglia parlamentare per l’abolizione del commercio degli schiavi, che colpiva interessi economici molto forti e gli suscitò opposizioni violente, incluse campagne denigratorie e ripetute minacce di morte. Quando iniziò a battersi per questa causa, l’amico Gisborne, con tipico umorismo inglese, lo avvisò: «Aspetto di leggere sui giornali che sei stato incenerito dai proprietari di piantagioni, bruciato dai mercanti di schiavi e mangiato dai capitani della Guinea». Ma Wilberforce non si scoraggiava facilmente. Anno dopo anno, per vent’anni, continuò a presentare la sua proposta di legge, documentando in modo sempre più approfondito le crudeltà della tratta e facendo lievitare il consenso. Senza risparmiarsi, teneva comizi in città e villaggi, seminava fogli e lettere, diffondeva spille e medaglie, creava reti di sostenitori. In particolare, ebbe il supporto di William Pitt, di Thomas Clarkson, di Olaudah Equiano, di Josiah Wedgwood, del Circolo di Clapham. E giunse il 23 febbraio 1807, quando finalmente lo Slave Trade Act che sanciva l’abolizione della tratta degli schiavi in tutto l’impero britannico venne approvato, con 283 voti a favore e 16 contrari. In quel momento solenne, Wilberforce sedeva nel suo banco, col capo chino e il volto rigato di lacrime. Tutti i presenti si alzarono in piedi per applaudirlo, anche quelli che in passato l’avevano osteggiato. Iniziava ora per lui una nuova battaglia parlamentare: se la tratta era stata abolita, chi era schiavo continuava ad essere tale. Fino alla fine della sua vita, egli  continuò a presentare atti su atti e a lavorare instancabilmente perché cessasse questo crimine contro l’umanità, ripetendo che tutti gli uomini sono uguali. Dopo immense fatiche, vinse anche questa volta: il 26 luglio 1833, già sul letto di morte, seppe che finalmente era stata approvata l’abolizione della schiavitù in tutto l’impero britannico. William Wilberforce spirò tre giorni dopo, il 29 luglio 1833. Fu sepolto, dopo solenni funerali, nella cattedrale di Westminster. Ma ancora oggi la sua voce, attraverso i suoi scritti, invita a lottare con stile democratico e non violento contro ogni razzismo ed ingiustizia sociale, col cuore attento al grido degli ultimi: «Non sono un uomo e un fratello?».

di Donatella Coalova